Brembilla, terra ricca di boschi (e boscaioli)

Nel corso dei secoli lo sfruttamento boschivo è sempre stato una grande risorsa per gli abitanti della Valle Brembana, in particolare per la Val Brembilla, dove il territorio prativo era molto meno esteso che in altri valli.
10 Aprile 2019

Nel corso dei secoli lo sfruttamento boschivo è sempre stato una grande risorsa per gli abitanti della Valle Brembana, in particolare per la Val Brembilla, dove il territorio prativo era molto meno esteso che in altri valli. È significativo infatti che dei tre soprannomi attribuiti ai brembillesi, due alludano proprio al bosco: “grata lègn” (tornitori del legno), “pelabròch” (scortecciatori di alberi), e lüf” (lupi).

Ecco ciò che scrive Gio. Maironi da Ponte nel suo Dizionario Odeporico (1819) a proposito di Brembilla: “Pochi campi a biada, molti pascoli e molti boschi, formano il territorio di Brembilla nella massima parte occupato come si è detto, da sterili e inaccessibili rocce. Il mestiere più comune di questi abitanti, che non arrivano ai milleseicento è quello della custodia del bestiame e quello di convertire legna in carbone.” 

A Brembilla infatti nell’Ottocento le professioni più diffuse erano quelle di contadino e di carbonaio, che erano di gran lunga più numerose di qualsiasi altra professione. In un documento delle tasse del 1830 presente nell’archivio comunale di Brembilla all’inizio anni settanta, trascritto da Don Mansueto Callioni e Giovanni Salvi, risultava che gli abitanti erano 2052, i capifamiglia di professione contadino 295, carbonaio 27, possidente 12, mugnaio 8, muratore 4, oste 5, animino 4, ceraio 4, fabbro 3, cavalante
2, cappellano e parroco 5, guardia comunale 2, calzolaio 1, studente 1, notaio 1, perito 1, maestra 1, suora 1. Se le 295 famiglie contadine erano equamente suddivise su tutto il territorio del comune, le famiglie di carbonai erano invece concentrate nella zona
nord del paese, in particolare a Cadelfoglia. Ben 11 erano i capofamiglia carbonai a Cadelfoglia: 3 Locatelli “Ròcol”, “Ciafèr” e Surdina”, 3 Musitelli: “Mafinöl”, “Chignò” e “Pinì”, 2 Carminati: “Tomasòt” e “Birbóna”, 2 Barcella “Pasabuna”, 1 Milesi “Mónch”. Altre contrade con boscaioli erano nella stessa zona, come il borgo di Grumello, con 3 famiglie Locatelli “Baiardo”, Barcella e Busi, l’abitato di Forcella Busi con 3 capi famiglie Busi, Gaiazzo con 3 capi famiglia Locatelli: “Gaiazì”, “Profeta” e Esposito, Baffeno e Piazzoli 3 capi famiglie Genini e 1 Pesenti “Piröla”, e Cavaglia con la famiglia Milesi. Due famiglie carbonaie erano invece a Laxolo, in particolare a Camuzzocco con la famiglia Rocchi “Scetù”, e a Caberardi con la famiglia Moretti.

Il taglio del bosco e le aziende boschive

Il legno era una risorsa fondamentale per l’economia brembillese e lo sfruttamento del bosco aveva creato moltissime aziende e dava lavoro a numerose persone. Vi erano aziende boschive dedite al taglio degli alberi, che impegnavano esperti boscaioli, ma anche manodopera femminile dedita al trasporto delle carrucole “girele”, utilizzate per portare a valle il legname attraverso teleferiche. Le principali aziende boschive presenti sul territorio dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Sessanta del Novecento erano Zanardi Piero, Personeni Giuseppe, conosciuto con il soprannome “Gnàro” dove erano occupati stagionalmente tanti capi famiglia e giovani. C’erano anche diverse aziende boschive non originarie del paese, la più importante era quella del Cav. Paolo Bertuletti con sede a Bergamo, quella di Marcarini Giovanni di Zogno, Arrigoni Querino di Vedeseta, di Locatelli Giacomo di Berbenno e tante altre, che oltre a tagliare i boschi della valle, richiedevano manodopera per i tagli dei boschi in Piemonte, in Valtellina, nella Val d‘Ossola e sull’appennino parmense e piacentino.

I boscaioli brembillesi erano infatti molto richiesti anche fuori provincia e nei racconti dei nostri vecchi ci sono aneddoti e storie che oggi sembrano lontanissime, ma che ci narrano sentimenti e valori che andrebbero riscoperti. Ad esempio, vi è la storia dei boscaioli brembillesi che nel 1951 emigrarono in Val Trebbia per tagliare 37.000 quintali di legna. Pietro Pesenti, sagrista di Catremerio di Brembilla e vecchio boscaiolo ci racconta la loro storia.

“Era il due di Maggio del 1951 quando siamo partiti con il treno dai Ponti per la Val Trebbia. A Bergamo si era radunata una squadra di 71 boscaioli, una quarantina di brembillesi, una ventina della Val Brembana e una decina di altre località limitrofe della Valle. Dopo diverse ore di viaggio siamo arrivati a Susi, una contrada tipo Catremerio in provincia di Piacenza. Da quel piccolo paesino, per arrivare sul posto di lavoro più alto bisognava camminare circa 7 ore. Il nostro padrone, l’Impresa Bertuletti Legnami di Bergamo, da qualche anno scendeva su quelle montagne con delle squadre di boscaioli. Il caposquadra era Pellegrini Giovanni “Gioàn Fich”, lui acquistava e cubava il legname, suo fratello Angelo era il responsabile alla teleferica con 4 capi fili, 15 uomini lavoravano al filo, 25 boscaioli erano addetti al taglio del legname e più di 20 univano la legna.

Il filo era lungo circa 16 chilometri intervallato da 4 “Batide”. Su questa lunghezza del filo circolavano contemporaneamente 60 “carghe de lègna” (carichi). Ricordo che il Masnada, boscaiolo di Laxolo, “l’molàa (dava il filo) ai truncù, al sigür e i siguròcc”. Avevamo affittato 35 capre e 3 mucche “rossicce” per avere il latte. Ricordo che il Vanotti Piero “Nardo” “l’cagiàa ol làcc “(faceva formaggio e stracchino). Avevamo costruito delle baracche dove si mangiava e dormiva, la sveglia era alle sei e si lavorava 11 ore al giorno. La vita era dura, si sperava che non capitasse mai l’incidente, perché là si era fuori dal mondo. Ricordo sempre, come se fosse oggi, le raccomandazioni alla prudenza, che predicavano i sigg. Pellegrini.

La domenica, dopo aver pregato, ci si lavava, si tagliava la barba e si lavavano i panni in un canale; si accudivano gli animali, e a turno si scendeva per comperare il pane nel paese più vicino dove c’era un’osteria. Si partiva di buonora e si tornava di sera. L’undici novembre ci siamo radunati tutti in quel paesino per il saluto alla gente prima del ritorno a casa. C’era stata una inondazione del fiume Po che aveva messo fuori uso parte della ferrovia e quindi la maggior parte tornò a casa con la corriera. La cosa più bella è che il nostro camion con gli attrezzi e i 2 Pellegrini si fermarono ancora qualche giorno nel paesino. Noi non capimmo subito il motivo, ma quando arrivarono a Brembilla non ci furono più dubbi. Si erano fermati in paese a contrattare e comprare le 3 mucche, le avevano caricate sul camion e portate a Brembilla. Quelle mucche prese in “affitto”, che ci avevano dato il latte, erano ormai una parte di noi, eravamo troppo affezionati per lasciarle in quella valle”.

L’Aràl e il Poiàt

Il taglio della legna e il trasporto a valle erano un lavoro molto impegnativo e faticoso. Spesso i boschi si estendevano per chilometri e non vi erano strade o sentieri di facile accesso. Si ovviava a questo problema utilizzando le teleferiche, ma anche trasformando il legno meno nobile, ovvero quello più piccolo o i rami in carbone di legna. Un chilogrammo di carbone pesava 1/5 o 1/6 rispetto alla legna e solo questo basta a farci comprendere come fosse utile questa lavorazione, che veniva effettuata sul posto, in mezzo ai boschi in specifiche “piazze”.

Vi erano specialisti nella trasformazione della legna in carbone, perché si tratta di un’operazione complicata e spesso pericolosa, non tanto per l’incolumità di chi la esegue, ma perché le probabilità che tutto finisse in “fumo” erano alte…Nonostante la scarsa manutenzione degli ultimi decenni, capita nei boschi della nostra valle di imbattersi in alcune piazzette, piccoli slarghi dove si trasformava la legna in carbone. Queste piazze sono denominate “Aràl”, dove un tempo veniva preparato il “Poiàt”, nome che in dialetto identifica quella struttura dove su “cuoceva” la legna per ottenere carbone. Giuseppe Busi, di Grumello di Brembilla, qualche anno fa, prima della sua scomparsa, ci ha raccontato le varie fasi che caratterizzavano il “Poiàt”, un rito preciso e metodico che con un’alchimia quasi magica permette di ottenere da piccoli pezzi di legna l’oggi purtroppo raro carbone vegetale.

Ecco la sua testimonianza:

Il Poiàt

Tipi di legno: tutti

Resa: con legni pregiati come il faggio, e piante cresciute al “sülìf” (luoghi soleggiati)
5 quintali di legna = 1 q di carbone; con legni come il nocciolo ed il carpino, 6 quintali
di legna = 1 q di carbone.
Periodo: tutto l’anno

Volume: nella nostra zona era di piccole dimensioni, ma all’estero si arrivava ad ottenere 100-150 q di carbone. I più esperti erano in grado di costruire “Poiacc” a tre piani con una resa di circa 200 q

Costruzione: si ponevano alla base, coperti con poca terra, due legni disposti a croce, usanza che univa il sacro alla superstizione: si riteneva che tale disposizione fosse indispensabile per una buona riuscita del lavoro. Al centro si innalzava un lungo palo attorno al quale si costruiva una scaletta con legni sovrapposti e incrociati. Contemporaneamente, tutt’intorno, si posizionava la legna, in pezzi di diversa dimensione, i più grossi alla base, i più piccoli in alto, fino ad ottenere una catasta a cono tronco, la cui sommità arrivava a misurare fino a 5 metri di diametro.

Da notare che la sommità serviva a volte da base per un secondo “Poiàtì”. Infine si avvolgeva il tutto con fogliame, strame e uno strato di terra. Poco lontano si preparava un mucchio di “gnochecc” ossia legna spaccata utile per l’accensione e per l’alimentazione del “Poiàt”. Vicino alla struttura veniva acceso un fuoco, che serviva per fornire la brace. Si avviava il “Poiàt” togliendo il palo centrale e riempiendo lo spazio vuoto con la brace, creando così un camino che iniziava ad ardere e fumare.

Cottura: iniziando dall’alto, si praticava una corona di fori (circa 30 cm di diametro) nel terriccio, permettendo al fumo di uscire. Dapprima il fumo era biancastro, misto a umidità, poi pian piano diveniva turchino, segno che la sottostante legna era “carbunada”. Si copriva allora la prima corona di fori e se ne apriva un’altra circa 30 cm più in basso. Così fino alla base del “Poiàt”. Quando alla sommità si formava una conca a forma di scodella, chiaro segno che il “Poiàt” aveva fame, bisognava “‘mbocal” (dagli

da mangiare) immettendo, dall’alto, i “gnochecc”. Questa operazione manteneva costante l’intensità della brace, così da non farlo “girare” (bruciare). In quest’ultimo caso (per altro infrequente data l’indiscussa abilità dei carbonai) si correva ai ripari coprendo con altro terriccio le parti più esposte.

Tempo di cottura: a seconda delle dimensioni, in media da 2 a 5 giorni, durante i quali veniva accudito giorno e notte da 1 o 2 persone con particolare attenzione nei giorni di pioggia.

Svuotamento: a cottura ultimata, partendo dalla base, si rastrellava il terriccio esterno e si estraevano i legni carbonizzati.

Piccola curiosità: i rami di larice, carbonizzati, se battuti l’uno contro l’altro, tintinnavano con un suono metallico.

Il bosco non era solo fonte di reddito e di lavoro, ma era risorsa fondamentale per l’intera famiglia contadina. Si sfruttava ogni singolo pezzo di legno, partendo sempre dai più piccoli e poveri per l’accensione del camino e della stufa. A testimonianza i nostri antenati ci hanno lasciato un detto dialettale: “A utùer tira ‘nsèma legna e patös perché l’invèren l’è spósa l’ös!” (a Ottobre raggruppa ogni scaglia di legna o ramoscello perché l’inverno è alle porte).

Il rispetto per il bosco era totale. Il taglio non era né casuale, né unico, ma la conoscenza del territorio e dei ritmi delle stagioni imponeva alle persone di custodire e salvaguardare una risorsa così preziosa. Dopo il taglio del bosco, nelle due primavere successive si interveniva eliminando tutti gli arbusti infestanti del sottobosco per favorire la crescita delle piante giovani risparmiate dal taglio. Dopo averli raggruppati in fasci e una volta essiccati, anch’essi venivano utilizzati per l’accensione di stufa e camino.
Oggi purtroppo il costo della manodopera è tale da non consentire più questa pulizia preventiva, anzi rami e cespugli, nelle zone meno accessibili, vengono abbandonati per la maggior parte disordinatamente a terra dopo il taglio. Vengono quindi recuperati per la vendita solo piante e rami di una certa dimensione.

Forse dovremmo tornare ad avere il rispetto di un tempo per il bosco e trovare oggi forme di cura e manutenzione nuove per limitare il pericolo che un bosco non curato può provocare nelle nostre valli. Come i nostri avi sono riusciti a trovare reddito nel
bosco, dovremmo essere capaci anche noi di “inventarci” soluzioni come un tempo furono il “Poiàt” e la cura dei boschi.

Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.17” e scritto da Alessandro Pellegrini.

 

 

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