Pensieri in Contrada – Hanno ucciso la montagna: la fine della grande famiglia del nonno

Riconosco di essere stato spettatore inconsapevole e protagonista a modo mio della fine della grande famiglia del nonno e, più in generale, del mondo in cui egli è cresciuto
3 Maggio 2019

Riconosco di essere stato spettatore inconsapevole e protagonista a modo mio della fine della grande famiglia del nonno e, più in generale, del mondo in cui egli è cresciuto. Quello della “grande trasformazione” della società, anche nel contesto rurale, avvenuta negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è un argomento cruciale per comprendere i diversi fenomeni ad esso connessi (industrializzazione, urbanizzazione, emigrazione e scolarizzazione di massa,…), ma soprattutto per tentare di ricucire, almeno in parte, quello strappo epocale che ha lacerato il legame della nuova società con il mondo preesistente.

La storia del notevole “balzo in avanti” di cui stiamo parlando, riconosciuto sotto il titolo di “miracolo economico” – così, almeno, lo abbiamo studiato nei libri di testo e sui banchi di una scuola “allineata” ai consumi – andrebbe riconsiderata e in parte riscritta. Nelle aree rurali, infatti, soprattutto in quelle più periferiche e di montagna, tale straordinario accadimento ha prodotto notevoli guasti, generando una serie di disvalori e di effetti negativi, connessi ad esempio all’abbandono della terra e allo spopolamento delle antiche contrade. Improvvisamente il contesto rurale è stato svuotato delle sue espressioni proprie, sociali ed economiche, e trasformato in semplice bacino di collettamento per reclutare nuova manodopera – una massa enorme di lavoratori e consumatori – da trasferire nelle città, nelle aree industriali, anche all’estero, in ogni caso da “riprogrammare” in relazione alle aspettative emergenti. La montagna è stata depredata, espropriata dei suoi caratteri intrinsechi, impoverita per il venir meno dei contenuti e delle forme della sua organizzazione sociale ed economica, occupata e sfruttata da forze ancora più raffinate e potenti di quelle militari tradizionali. Hanno ucciso la montagna.

Come me, la generazione di montanari nata tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra, ha segnato il passaggio, anche nelle valli orobiche, dall’antico mondo contadino alla società “moderna”. Ha pienamente ragione Pepi Merisio quando afferma di aver fotografato, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il Medioevo: sino ad allora, infatti, la vita e il lavoro sulle Orobie si tramandavano da una generazione con l’altra in modo quasi naturale e coerente, secondo modalità e ritmi antichi, che affondano le radici nella civiltà medioevale. Il lavoro nei campi e nelle botteghe artigianali, l’organizzazione sociale e religiosa nei villaggi sparsi sulle nostre montagne mantenevano sostanzialmente l’impianto strutturale originario, che nei secoli si è evoluto lentamente, con gradualità e senza discontinuità. La società rurale della prima metà del Novecento non era poi così dissimile da quella ottocentesca e dei secoli precedenti, mentre invece si presenta lontanissima e fondamentalmente estranea rispetto a quella della seconda metà del secolo scorso.

Abbiamo assistito, in così poco tempo – sono bastati pochi decenni – a un’accelerazione socio-economica, in termini di incremento di servizi e di consumi, mai vista prima. Il “balzo in avanti” è stato così massiccio e invasivo – anche sul piano culturale – al punto che molti di noi oggi fanno fatica a individuare, riconoscere e accettare le proprie origini. Sempre l’amico Merisio, al quale auguro di ristabilirsi presto da una difficile condizione di salute, mi ricordava che, quando allora entrava nelle nostre valli per fare ricerca, non solo in campo fotografico, si trovava sempre di fronte ad ambienti e a persone autentici e profondamente riconoscibili nelle loro diverse espressioni: riusciva ad individuare il muratore dal boscaiolo, la massaia dalla filatrice, il medico dal contadino, il prevosto dal cursore,… e via dicendo. Attualmente, invece, ci hanno resi solo all’apparenza tutti uguali, per favorire e facilitare i processi dei consumi di massa, sui quali si fonda la moderna società. Egualitarismi di facciata. Nulla di più. Fatichiamo a riconoscerci.

Queste considerazioni rischiano di rimanere concetti vuoti e astratti, fin tanto che non vengono calate nel vissuto concreto delle persone. Ecco perché, anche nella riflessione che segue, ripercorro la mia esperienza personale, quale punto di partenza nel tentativo di rilettura dell’evoluzione della società nel suo complesso. Per rappresentare, in sintesi, l’arco storico di riferimento, mi avvalgo di tre figure: il nonno (classe 1907), che rappresenta l’antica civiltà rurale della montagna orobica; il papà (classe 1933), un soggetto di transizione, che si è dovuto confrontare sia con la precedente società del risparmio (del nonno), che con quella successiva e attuale del consumo; infine la mia (classe 1961), affacciatasi sulla scena della nuova società, che ha definitivamente sancito il crollo del preesistente sistema di vita.

Molti esempi si affacciano nelle mie riflessioni, quando penso, ad esempio, alla morte dell’edilizia rurale, costruita da oltre un millennio con pietre, calce e rena, i materiali con i quali sono stati edificati i luoghi della vita e del lavoro e modellati i versanti montani, oggi sostituiti dal cemento armato; come pure penso alla sconfitta dei tradizionali allevamenti di monte, nei pascoli popolati da vacche bruno e grigio alpine, oggi sostituite da una varietà di altre razze di lontana provenienza. Il territorio, nel suo complesso e nelle sue molteplici espressioni, è divenuto uno spazio estraneo e persino poco conosciuto. Ma, in questo momento, penso soprattutto alla morte della grande famiglia, che per lungo tempo ha accolto, in comunanza di spazi e di intenti – entro un unico progetto di vita – i diversi componenti del gruppo parentale, anziani e giovani, donne e uomini, tuse e spuse: all’interno di questa grande unitaria compagine, il regiùr coordinava le attività e i lavori che si svolgevano prevalentemente fuori della casa, con un potere di rappresentanza generale del gruppo all’esterno, mentre la regiùra si occupava fondamentalmente delle questioni domestiche e delle relazioni tra i vari membri.

Sìe amò ü tosalì quando la mamma ha separato la sua residenza da quella della famiglia estesa di un tempo, abbandonando quindi la casa del nonno, dopo la metà degli anni Sessanta: col sò Cèsco e i primi tre bambini ancora piccoli (ne arriveranno poi altri tre), lè ‘ndàcia a stà fò a la Césa, occupando uno degli otto appartamenti della grande casa che l’anziano capostipite aveva costruito pròpe denàcc a la bütìga dol Balèta, grazie soprattutto delle rimesse provenienti dal lavoro nei boschi in Svizzera dei suoi figli. Negli anni Sessanta incominciava a circolare nelle famiglie una maggior quantità di denaro, grazie soprattutto al lavoro in Svizzera di molti valligiani. In quel periodo sorgono nuovi imponenti edifici, strutturati in numerosi piani, raggiungendo altezze quassù mai viste prima, come grandi torri inneggianti al nuovo corso economico.

Il modello della casa divisa in appartamenti sancisce la fine della famiglia di un tempo, in fase di continuo smembramento, e i beni individuali incominciano a prevalere con forza su quelli collettivi. Pure la terra subisce un continuo processo di frazionamento in minuscole particelle, ciascuna delle quali con specifico e quasi esclusivo interesse edificatorio, anziché rimanere agganciate alle dinamiche agricole. La mamma era felice della sua nuova casa, percepita come una conquista sociale, ma lo stesso non posso dire per me: mi mancavano soprattutto il nonno e la nonna, ma poi anche gli zii e gli amici d’infanzia con i quali, sö la còsta de Canìt, mi ero affacciato alla vita. I luoghi dei miei primi movimenti all’aria aperta, per prati e boschi, spaziavano senza confini nella mia fantasia ed erano troppo diversi da quelli ristretti entro le pareti estranee della nuova casa, edificata lontano, non più nella contrada, ma nel nuovo centro del paese, allora in fase di formazione. Quell’appartamento, fò a la Césa, rimaneva un ambiente chiuso e limitante: gh’ìa mia l’èra, che connetteva la cucina direttamente con il prato. Inoltre non sentivo più il cinguettio degli uccelli del Tata, tenuti in gabbia en banda al laandì; mi mancavano le corse nel prato col Mósca, il vecchio cane pastore del nonno, come pure lo scodinzolare tra le gambe del Muschì, il cucciolo nato pochi mesi prima fò en de la strécia, drì a la cà.

Fò a la Cèsa mi mancava l’aria che avevo respirato nei primi sei anni di vita: le mucche nella stalla sö a l’èra. L’asinello Pino, che il papà aveva acquistato qualche anno prima, per alleviare alcune fatiche nei trasporti, soprattutto per lo spargimento del letame nei prati. Ol serài egliò apröf, fò pus a la cà, drì a la nüs, dove l’estate il nonno, dopo aver pranzato, è l’vàa fò a fà ol mesdé: si sdraiava nel prato, all’ombra del grande noce, appoggiando la testa söl giachèt pieghàt sö, utilizzato come guanciale, e coprendosi il volto con il suo cappello a larghe tese.

Mi mancava il lettone dei nonni, in mezzo ai quali molte mi coricavo la sera: prima, però, la nóna la me fàa sémpre dì sö ol Pater, l’Angelo de Dio e ü Rèquiem per töcc i mòrcc; infine non mancava mai ol sègn de la Crùs, con le dita della mano bagnate en de l’aqua santa dol segnaröl. Durante il giorno, non c’erano più ol pòrtech de la lègna, la stala dol porsèl, ol pianèt de l’èra, ol casòt dol nóno,… tutti luoghi abituali del mio primo incontro cosciente con la vita e degli innocenti divertimenti con archècc e éscc, intento alla cattura di qualche volative. Piccole prede come grandi trofei! Questo mondo era improvvisamente finito. Fò a la Césa, nel nuovo appartamento, prima de endà en cà besognàa caà fò i scarpe, per mia strüdì sö ol paemét di graniglia di marmo incerato: tutte le mattine la mamma, prima di andare a scuola, e l’mo l’fàa terà fò löstro, co i patìne sóta i pì, oppure con gli stracci di lana sóta i mà, camminando a quattro zampe. Non così nella casa del nonno. Anche a scuola, i miei amici rimanevano quelli della bànda de ché, provenienti cioè da Canito, sul versante orientale del villaggio, assieme ai quali, poi, al termine delle lezioni mattutine, mi avviavo, all’insaputa della mamma, sulla strada di casa del nonno.

Lungo quel percorso, per me naturale, che si snodava tra prati e boschi, erano almeno due le tappe: la prima per la cattura di una lucertola almeno, la seconda per continuare a scavare una piccola grotta, dó en de la àl de Spàdola, che nei nostri progetti fantasiosi doveva servire da rifugio durante le giornate di pioggia. La nóna, quande che la me idìa reà fò, ‘nsèma ai tosài de Canìt, non mi rimproverava e, prima che io raggiungessi il nonno dó en dol càp, o sö a la stàla de l’èra, improvvisava ü ciarighì e, con la polénta ansàda dol mesdé, anche il mio dolce preferito: polénta e marmelàda!

Le mie “fughe” in uno spazio “diverso” e autentico, rappresentava forse un tentativo – inutile – di recuperare e trattenere un’esperienza felice, in un periodo di grandi e repentini cambiamenti. Non c’erano alternative. “O mangià stà menèstra, o saltà la fenèstra”, si diceva, allora, per indicare una situazione incontrovertibile. Come la corrente di un torrente in piena, ogni cosa o azione contraria al moto principale veniva immancabilmente travolta… col rischio, per le persone, di farsi anche del male. 
Quelle piccole fughe, infatti, terminavano quando arrivava a Canito la mamma, certo preoccupata delle mie continue disubbidienze, decisamente anche molto indispettita: con le sue ragioni, ma specialmente co la bachèta de cornàl en di mà, cercava a tutti i costi di convincermi che la mia casa l’ìa piö chèla dol Tata fò en Canit, bensì chèla nöa fò a la Césa.

Non capivo, allora, cosa stesse dicendo: parole vacue, senza un significato accettabile. Innanzitutto, ribelle com’ero, cercavo di non farmi acchiappare, perché desideravo intensamente vivere con i nonni: a volte fuggivo per prati e boschi, oppure mi nascondevo nelle stalle o sui fienili; altre volte, invece, cercavo rifugio e comprensione attaccato alla begaröla de la nóna, la grande mediatrice, che mi ha voluto tanto bene. “Pòrtel vià. Ma péchel mia!…” si limitava a raccomandare alla mamma, consapevole che anche la sua autorità stava per finire. Un po’ meno dispiaciute, forse, erano le zie, la cui pazienza aveva molti più limiti, spesso al centro dei miei dispettucci e di piccole rivendicazioni domestiche… A loro tutti, comunque, rimango grato.

Testo scritto da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna

Ultime Notizie

X
X
linkcross