Pensieri in Contrada – Il sivlì, il piccolo flauto della Valle Imagna

Il sivlì nasce nei boschi, in prossimità degli insediamenti rurali tradizionali, ottenuto mediante la tornitura. Ce ne parla Antonio Carminati del Centro Studi Valle Imagna.
3 Gennaio 2020

Mi capita spesso di abbinare persone a concetti, che peraltro ho appreso dalle stesse, le quali, oltre a costituire solidi punti di riferimento nell’espletamento delle articolate attività del Centro Studi, continuano a rinnovare la memoria e a riempire di significati i diversi programmi di ricerca.

Il compianto amico Febo Guizzi, ad esempio, venuto a mancare alcuni anni orsono, noto etnomusicologo e studioso delle culture locali, mi richiama sempre alla luce la necessità di non trascurare il paesaggio sonoro, uno dei temi a lui cari, che ha sviluppato nel corso delle sue fortunate e provvide indagini. Ho avuto modo di discutere ampiamente con lui di questo argomento a Brumano, nel 2013, seduto ad un tavolino dell’unica osteria del piccolo villaggio, incastonato sulle pendici del Resegone, al termine della presentazione del volume “Sivlì e Sivlòcc” curato da Valter Biella, cui anch’egli aveva collaborato nella ricostruzione della storia del piccolo flautino a tre fori della Valle Imagna. La conversazione continuò sino a notte fonda, non solo per mettere ulteriormente a fuoco la straordinaria portata storica e culturale del Sivlì, che affonda le sue origini nel mondo medioevale, quanto soprattutto per non fermare la ricerca a questo strumento e indirizzarla verso lo studio delle altre espressioni sonore del paesaggio, di cui la nostra montagna è ricca.

Uno degli ulteriori argomenti dichiarati per la ricerca consisteva, per l’appunto, nello studio e documentazione dei piccoli strumenti a fiato utilizzati quali richiami sonori dai cacciatori appostati nei rispettivi capanni. Tali strumenti sostituivano i richiami vivi. In Valle Imagna, ancora sino a tutta la prima metà del Novecento, si era formato un vero e proprio mercato di richiami sonori per uso di caccia, costituito da una rete di costruttori e venditori. Realizzati in ottone o con semplice latta, la bravura dei costruttori stava proprio nel saper riprodurre fedelmente il canto dei singoli volatili, soprattutto mèrle e dùrcc, eschère e sdurdì, ma anche frànguèi, montanèi e laarì. 

Una sollecitazione tira l’altra e la curiosità cresce durante la ricerca, aprendo in continuazione nuovi scenari. Dal paesaggio sonoro a quello sensoriale più ampio il passo è breve e la sfida consiste nel cercare di documentare la realtà e raccontare la storia utilizzando i cinque sensi, che rappresentano il nostro canale di comunicazione con il mondo che ci circonda. Come quando eravamo bambini, a carponi per terra, oppure a piedi nudi nel prato o nelle pozze delle vallette, formate da piccole cascatelle d’acqua, senza perdere mai i contatti con la realtà, la fatica e la gioia del vivere quotidiano, la terra che calpestiamo tutti i giorni. Oggi è l’immagine, la vista, a farla da padrone, anche se da sola non basta a rendere un’atmosfera, per trasmettere il contesto in cui si muove un personaggio o si svolge un’azione.

Considerare il paesaggio sensoriale della realtà quotidiana dei villaggi rurali tradizionali sulle montagne orobiche significa cogliere a tutto tondo la vita delle persone nelle sue diverse espressioni concrete, per riuscire a trasmettere ancora, al giorno d’oggi, ad esempio, quell’indimenticabile profumo aromatico del minestrone de lard pestàt e pedersèm che bolle nella pentola sulla stufa, o tacàda sö a la sósta dol camì, e si espande nella corte della contrada, dove i bambini iè dri che i döga a tópa e il caplestio degli zoccoli chiodati sulle pietre selciate della caalìra si mescolano con gli schiamazzi e le grida festanti; oppure come non rappresentare il rumore costante, ripetitivo e tonfo, diffuso dal battito del grosso martello del maglio sull’incudine, che richiama l’attività di fabbri e maér nei rispettivi laboratori? Allo stesso modo risuonano ancora nelle orecchie dei meno giovani gli schianti fragorosi delle grosse piante di faggio che cadono al suolo, precedute dall’urlo di preavviso del boscaiolo ancora ansimante, con i muscoli delle braccia tesi dal peso della grossa motosega o del rasgù: “Óoooolta!…”. E, ancora, come comunicare oggi il lavoro di quei poiatér che vivevano isolati diverse settimane nel bosco, intenti a carbonà notte e giorno, di continuo, senza interruzione, la cui presenza era segnalata dalle fumaiole che si innalzavano dalla foresta verso il cielo, come per richiamare l’attenzione di frammenti di vita e di lavoro sparsi qua e là sul versante di monte? Uomini dalle camicie intrise di resina e sudore, sul cui volto, però, seppur alla parvenza tagliato con l’accetta e forgiato dalla fatica e dal sacrificio, non mancavano di trasparire frammenti di umanità. E che dire del profumo e del sapore della polenta ancora fumante, versata a mesdé sö la bàrgia, accompagnata al palato dei commensali dal pucì ottenuto nella grossa pentola colma di patate e cudighì?…

Come dimenticare, infine, quell’odore di casa e di lavoro, di fatica e di bosco, fuoriuscire dalla valigia di mio padre, al rientro dalla Svizzera, a novembre, dopo una campagna di lavoro nelle foreste elvetiche, quando la mamma apriva quel grosso e gonfio contenitore, tenuto insieme anche da due o tre cinghie, mentre noi bambini eravamo lì attorno, per vivere quel rito che si ripeteva tutti gli anni, ad attendere ol ciocolàt? E poi le rare e forse per questo ancor più preziose carezze della nonna, che sfiorava le guance dei bambini con mani sempre in movimento e dalla pelle indurita dal tempo e dai lavori, dall’acqua gelida dell’inverno e da quella calda nella culdìra pronta per la nuova lisciva. Mani dall'impronta dol menàl de la polénta e de gógie, ma anche dol rastèl e dol corlàs…

Odori, sapori, rumori, percezioni tattili, gesti e azioni, ciascuno con la propria ambientazione, come l’organo alla chiesa, la fisarmonica all’osteria, ol sivlì al prato, ma anche il tornio alla bottega artigianale, la menèstra alla cucina, ol rasgù e la tronsönös al bosco, la valigia alla famiglia,… La grande sfida di quanti fanno documentazione consiste nel riuscire a rilevare più dati sensoriali possibili e, per quanto ci riguarda da vicino, rendere poi tutto ciò in testi descrittivi diretti ed efficaci. Non è facile e, per fare ciò, occorre entrare nella dimensione umana e spirituale delle persone, “partecipare” in un certo senso alle situazioni descritte, cogliere l’anima dei luoghi indagati, senza limitarsi agli aspetti razionali della mera conoscenza dei dati più evidenti. Il paesaggio sensoriale ci aiuta a cogliere gli ambiti emozionali e i diversi livelli di pensiero dei singoli individui, colti nelle loro molteplici espressioni e rappresentazioni creative, ciascuno dei quali interprete di un proprio linguaggio.

Questo è stato il grande insegnamento di Febo Guizzi, ed è bastata una conversazione amicale di un’ora per comprendere le fondamenta di un sapere aperto alle varie dimensioni della realtà, che è sempre molto, ma molto più grande rispetto alle nostre modeste capacità percettive. Evidentemente il professore insisteva in modo particolare sulle manifestazioni sonore del paesaggio, pur non trascurando gli altri approcci sensoriali e, per quanto concerne nello specifico il sivlì, alle attività di studio e di ricerca hanno fatto seguito azioni di valorizzazione e di divulgazione del caratteristico flautino a tre fori. Il contesto umano e ambientale della valle ha così potuto continuare a vivere e a trasmettere uno dei suoi suoni caratteristici provenienti da lontano, note acute e squillanti in grado di affrontare ambienti aperti, nei prati e nel boschi, ma soprattutto nelle antiche contrade medioevali che hanno prodotto e conservato sino ai nostri giorni questa importante espressione artigianale e artistica. Il sivlì nasce nei boschi, in prossimità degli insediamenti rurali tradizionali, ottenuto mediante la tornitura – con rudimentali torni “a gamba”, come quello ancora conservato dalla famiglia Angiolini di Brumano – di essenze legnose locali, mentre il suo suono adamantino è espressione diretta dell’ambiente umano e naturale che lo ha generato, trasportando ancor oggi nell’aria le melodie tipiche della società medioevale e rinascimentale. Allo stesso modo in cui il suono dei campanacci delle vacche al pascolo appartiene alla vita delle praterie montane l’estate, durante la bella stagione. Suoni correlati ad azioni particolari, inserite in circostanze di tempo e di luogo storicamente definite. Suoni e strumenti rivelatori di una cultura, specchi della storia sociale del popolo.

Febo Guizzi ha potuto studiare a fondo il flautino, grazie ad alcuni ritrovamenti di antichi strumenti musicali e alle note indagini applicate di alcuni ricercatori locali, come Pier Giorgio Mazzocchi e Valter Biella. Grazie soprattutto a quest’ultimo, il Centro Studi Valle Imagna ha potuto ricostruire i sivlì, nella loro conformazione originaria, sia in legno per gli estimatori, che in materiale plastico per una diffusione nelle scuole, rimettendolo così in circolazione nei villaggi rurali delle Orobie. Si è trattato di una forma di restituzione alla popolazione di un oggetto concreto, anzi di un vero e proprio strumento musicale, generato dalla cultura popolare sedimentata nei secoli precedenti ed espressione verace di spiriti liberi e creativi.

Diversi insegnanti lo hanno adottato nelle rispettive classi e nel 2010 è stata costituita la Banda dol Sivlì, composta da un gruppetto di bambini della scuola elementare di Corna Imagna che, assieme alla loro insegnante, ha partecipato alla rassegna “Bergamo On Pipes”. Ruben, Michele, Laura, Gaspare, Thomas e Matteo, ciascuno con il proprio sivlì appeso al collo, hanno aperto la sfilata sul Sentierone delle numerose bande di cornamuse provenienti da tutto il Nord Europa, per esibirsi poi in concerto al Lazzaretto.

Quei bambini di allora sono cresciuti, hanno attraversato l’età dell’adolescenza, dove è stato difficile per loro sostenere l’eredità di valligiani portatori di una specifica cultura musicale. Essi hanno subìto, anche attraverso la scuola, un processo di normalizzazione sociale. Ma sono certo che, nove anni dopo, oggi, all’alba dei loro vent’anni, quel fondo etnomusicale, costruito da protagonisti nel periodo della scuola elementare, esiste ancora, seppure allo stato sommerso, latente. Un giorno, prima o poi, riaffiorerà…

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