Pensieri in Contrada – La fienagione tradizionale, questione di forza e coraggio

La fienagione è una di quelle attività rurali che, certamente più di altre, fa sentire il contadino, in montagna, debole e dipendente da forze esterne assai più potenti e sconosciute, come i temporali improvvisi...
9 Luglio 2019

La fienagione è una di quelle attività rurali che, certamente più di altre, fa sentire il contadino, in montagna, debole e dipendente da forze esterne assai più potenti e sconosciute, quali sono, nelle nostre rimembranze, ma pure nella contemporaneità, i fattori atmosferici avversi e imprevedibili. Non che alla Bassa non si vivano queste apprensioni, ma non è la stessa cosa, poiché sui versanti delle vallate alpine e prealpine, piccoli allevatori e modesti agricoltori di monte sono il loro ambiente, fanno parte della terra che lavorano ancora a forza di braccia, poichè quelle meccaniche le rìa mia depertöt.

Si sentono feriti nell’orgoglio, oltre che en dol bursì, quando un temporale improvviso – non è una novità sulle quote alte – li coglie di sorpresa e, dopo qualche improvviso tuono di preavviso, scarica la sua dose di acqua sul foraggio in fase di essiccazione, anzi a volte persino in attesa di essere imballato e trasportato sul fienile. Con l’acqua, tutto il cielo crolla addosso, li lascia ancora più soli a macerare nei loro pensieri e, in pochi minuti, vengono annullate almeno due giornate di lavoro, tanto quanto basta al foraggio per secà: tagliata la mattina del giorno prima con la Bcs (oppure con la rotante collegata al trattore nelle zone pianeggianti), quindi subito spandìda col ràscc, infine oltàda il pomeriggio con girello e rastrello, la sera, quando il tempo non promette bene, l’erba, che sta diventando fieno, ma non lo è ancora, viene ‘nrenàda, ossia leggermente ammucchiata e riunita in lunghe còle nel prato, a mezzo di rastrello e ranghinatore.

Durante la mia infanzia, le famiglie erano ancora più prudenti e la sera era consuetudine montonà sö ol fé, ossia costruire con la forca grossi mucchi di foraggio, a forma conica, aventi anche oltre un metro di base per circa un metro e mezzo di altezza, che venivano di norma coperti con de tòch de plàstega. Era il modo migliore per proteggere il prezioso alimento dal temporale in vista. Si lasciava ammucchiato in lunghe colonne solo quando era certo il perdurare del bel tempo, ma sempre con molta apprensione. All’occorrenza ci si alzava anche la notte, per correre nel prato a fà sö i muntù, o a quarciài dó bé, nell’imminenza di un temporale… Tutto era condizionato al fieno. L’indomani, poi, si procedeva di nuovo a spàndel, in mattinata, sempre col ràscc tra le mani, attendendo che la códega del prato fosse asciugata, anche solo dalla rösàda notturna; quindi, di norma, l’erba ancora oggi va rivoltata almeno due volte: verso mezzogiorno e poi due ore dopo circa, prima di procedere, a conclusione del processo, col ranghinatore per radunare definitivamente la massa di fieno frusciante ormai essiccato, preparandolo, raccolto in lunghe colonne, al passaggio della rotoimballatrice, che lo raccoglie, lo compatta e restituisce sotto forma di grossi balù de fé.

È la pioggia il vero nemico della famiglia intenta a fà l’fé e, quando l'acqua compare inattesa, annulla tutti i programmi di lavoro messi a punto in precedenza, a volte già in fase di conclusione, e costringe e diversi componenti a ripensare al domani, riprogrammando anche quelle attività che si pensavano ormai ultimate. Quando si bagna, o si raffredda la sera, ol fé e l’reègn, ossia perde quelle caratteristiche che lo rendono maturo e trasferibile sul fienile. È come se si rinverdisse in parte. Più è secco e più assorbe l’acqua, che penetra soprattutto nelle bösche. Occorre ricominciare da capo, quindi tornà a spànd ol fé, oltàl più volte, sino a farlo di nuovo asciugare; infine, quando la massa di foraggio sciolto e sparso nel prato si è di nuovo riscaldata, la ‘ndà teràda ensèma e messa al sicuro, prima che un altro improvviso temporale colpisca per la seconda volta un lavoro già faticoso e difficoltoso. La natura è imprevedibile e a volte fa brutti scherzi. 

Proprio ieri pomeriggio, mentre eravamo in chiesa per dare l’ultimo saluto funerario a un compaesano, amico conosciuto e stimato per la sua generosità, öna bràca de fé, nella contrada Regorda, in prossimità della Bibliosteria di Cà Berizzi, già pronta per essere imballata, stimata in circa cinque o sei quintali, l'è restàda sóta l’aqua. Un temporale inatteso ha fatto la sua comparsa improvvisa. Il momento struggente dell’ultimo saluto al caro compianto – tutta la comunità radunata sotto la grande volta della chiesa – è stato accompagnato, all’esterno, dal rumoreggiare del temporale in arrivo nella calotta celeste, ancora una volta da drì al Sécol, preannunciato dal suo inconfondibile brontolio e da improvvisi assordanti tuoni, come tanti colpi di mortaio, che anticipano e preparano il terreno alla battaglia. Non è valsa l’inutile corsa nel prato, al termine della cerimonia religiosa, quando acqua e ghiaccio hanno colpito a raffica e indistintamente ogni cosa.

Pazienza. In questi casi non rimane altro da fare che rassegnarsi. E ripartire di nuovo. Ricominciare da capo. Proprio come insegnava la maestra a scuola. Punto e a capo. I montanari sono allenati a questa modalità, ma ogni volta non si può non provare sofferenza e, non di meno, emergono anche alcuni atteggiamenti di ribellione, che però si spengono subito, sul nascere, di fronte all’ineluttabilità di eventi non revocabili.

In montagna l’uomo vive ancora in simbiosi con la natura, gioisce e soffre con essa, si arrabbia e poi riposa, poiché ha conservato e rinnova ogni giorno, nelle sue azioni quotidiane, una relazione di appartenenza, sostanziale, con radici profonde nella storia, nell’ambiente umano e nella famiglia. L’uomo è talmente compenetrato nella struttura ambientale dei luoghi al punto da caratterizzare la dimensione economica e sociale degli insediamenti rurali. Poiché la storia non cancella nulla, ma costruisce un labirinto di tracce e, semmai, nasconde la verità solo agli sprovveduti o alle persone superficiali, mi sono chiesto come mai la fienagione era, ed è ancora oggi, così sentita dalla popolazione locale, anche da coloro i quali ormai non vivono più né di allevamento né di agricoltura, al punto da creare una sorta di partecipazione generale al beneaugurante sfalcio dei prati? Un rito collettivo.

Mentre maggio è il periodo della grande fioritura, il mese di giugno è sempre stato quello del raccolto e, se qualche evento avverso l’avesse pregiudicato, a venir meno era la stessa capacità di sostentamento della famiglia rurale. Quando, poi, al temporale passeggero, facevano seguito giornate consecutive di pioggia, col tép maciàt dó, dopo una settimana quel foraggio reciso disteso nel prato e l’deentàa patös e poteva essere utilizzato, nella migliore delle ipotesi, come stràm per la lettiera delle vacche nella stalla.

I fienili sono sempre stati i veri “granai” della montagna. Attualmente il danno provocato dalla perdita di una parte del foraggio può essere facilmente recuperato mediante l’acquisto di un prodotto corrispettivo proveniente dalla Bassa, ma un tempo, ancora sino a tutta la prima metà del Novecento, la mancanza di comode strade carrabili e di efficienti mezzi di trasporto rendevano impossibile il perseguimento di tale soluzione e al contadino, incorso in simile grave sventura, non rimaneva altro che svendere il bestiame. E, quando una vacca usciva dalla stalla, non per pascolare libera nel prato, ma legata alla corda e portata via dal bechèr, oppure dal nuovo acquirente, per mancanza di una scorta sufficiente di foraggio, erano pianti di miseria per la famiglia! Se ne andava un pezzo di economia, veniva meno una parte della famiglia, quando anche la vacca era considerata, a pieno titolo, una componente essenziale del gruppo parentale. Si creava, al suo interno, un clima di lutto vero e proprio. Nella parte più recondita della nostra memoria, sono probabilmente ancora presenti queste antiche paure e la fienagione continua ad essere tutt'oggi una delle attività rurali più sentite e partecipate. Le rogazioni del maggio avevano la funzione di allontanare tale cattivo e infausto presagio.

Come nella favola di Esopo, quassù i contadini, soprattutto durante l’estate, lavoravano assiduamente, come tante formiche, con l’obiettivo di mettere via le provviste per l’inverno. E con quanta parsimonia e passione, anche nelle cose minute! Piccole ma importanti scorte quotidiane accumulate sul fienile, quando una parte importante dell’economia delle famiglie rurali gravitava attorno alle risorse zoo-casearie. Ol Tata le stàa sö la stala dol fé, pronto ad accogliere ol portadùr col fasì de fé sö i spàle, che veniva scaricato sura la mida, alla quale si accedeva mediante una robusta scala a pioli. A ‘ndà sóta la sdìrna erano uomini e donne indistintamente, i più giovani e robusti: giunti d’innanzi al purtù de la stala dol fé, ol portadùr doveva chinare leggermente la testa in avanti, già fissata nella nécia dol fé in mezzo alla sdìrna, per spingere in avanti il grosso carico che aveva sulle spalle, per farlo passare; ma non era ancora finita perché, dopo quella fatica, al termine del viaggio, doveva risalire, sempre col grosso carico sulle spalle, alcuni basèi dol scalèt appoggiato alla mìda dol fé, per poter finalmente scaricare il grave peso.

L’anziano capo della famiglia lo slegava e, una volta liberata la sdìrna, forca alla mano, distribuiva la massa di fieno ancora frusciante su tutta la superficie, invitando noi bambini a pestàl bé, soprattutto negli angoli e vicino ai muri. Non c’era tempo da perdere, besognàa fà a la svélta, perché un altro fasì sarebbe stato in arrivo da lì a poco. Il nostro spasso, invece, consisteva nel salire söl caàl della grossa capriata, al centro della stalla, per poi tuffarci in quel “mare” di fieno. Non c’era miglior divertimento. Sino a pochi decenni or sono, tutto il fieno veniva fatto a mano, dallo sfalcio dell’erba con la rànza, sino alla sua lavorazione ed essiccazione nel prato a mezzo di rastèl e ràscc, infine al trasporto con la sdìrna sul fienile in forma sciolta, dove veniva ben distribuito e compressato, calpestandolo in continuazione. Al giorno d’oggi molte cose sono cambiate e il foraggio viene compattato nel prato entro rigide rotoballe: il fienile non è più lo spazio “vivo” della distribuzione e ordinazione del foraggio sciolto, dove si completava la sua maturazione, ma un semplice magazzino di rotoballe. Una concezione completamente diversa dello spazio.

Il nonno, sempre l’ultimo a lasciare il campo, quando anche l’ultimo fasì era stato trasportato sul fienile e i vari protagonisti del faticoso lavoro rientravano a casa o in stalla, dove li attendevano altri impegni, si fermava innanzitutto e pegnà dó la mida dol fé, pettinando con il rastrello la parete di fieno sino ad ottenere una perfetta linea verticale, tirata come col fino a piombo; quindi ritornava, ancora da solo, nel prato, armato di rastrello, per “ripettinarlo” diffusamente, come una grande carezza, raccogliendo anche i piccoli rimasugli di fili di fieno sparsi qua e là, che solo i suoi occhi allenati intravvedevano anche a distanza. Interpretata con il senno del poi, si tratta di un’azione significativa più sul piano simbolico che economico. Era una forma di silenziosa riconciliazione personale con la natura, che aveva contribuito a riempire il fienile della stalla, e di ringraziamento alle forze sovrannaturali, le quali avevano certamente contribuito alla conclusione positiva del raccolto. L’anziano capostipite era sempre molto attento alla gestione del prato, durante tutto l’anno: lo teneva ben pulito, sgombro da i tópe, senza rovi o cespugli ai margini e sulle linee di confine con il bosco.

Tutto doveva sempre essere in ordine. Una continua ricerca della perfezione, attraverso l’osservazione quotidiana di un contesto assai familiare, costruito giorno dopo giorno con tanti piccoli lavoretti di manutenzione. Ancora prima che essiccasse, cioè appena falciato da uno dei suoi figli con la robusta Bcs, dal graffiante motore a scoppio, acquistata negli anni Settanta (considerata un vero progresso, allora, nonostante fosse assai pesante da governare, dotata di una sola ruota e con pèchen snodabile, che si fissava in verticale quando doveva essere condotta sui sentieri di montagna), ol Tata, con seghés e rànza al seguito, ripassava rìoi e sise, per tagliare anche gli ultimi ciuffi d’erba rimasti. Il prato era lo specchio della sua vita. Essenziale e ordinata. Ogni anno ripeteva, da una vita intera, le stesse azioni, i medesimi gesti, con gli attrezzi di sempre, costruiti personalmente con le sue mani. Con tanta forza e coraggio, che immancabilmente regalava alla sua famiglia

Testo scritto da Antonio Carminati, direttore del Centro Studi Valle Imagna

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