Lo spillone dell’età del Bronzo ritrovato a San Pellegrimo Terme

Alla fine del 2016, Carlo Milesi, durante un’escursione con il padre e il fratello, lungo la riva sinistra del fiume Brembo a San Pellegrino, raccolse quello che sembrava un grosso chiodo. Ma in realtà si trattava di un oggetto antico.
25 Luglio 2018

Alla fine del 2016, Carlo Milesi durante un’escursione con il padre Francesco e il fratellino Giorgio lungo la riva sinistra del fiume Brembo, poco a nord dell’abitato di San Pellegrino, raccolse quello che, a prima vista, poteva sembrare un grosso chiodo ossidato. Il padre, osservandolo meglio, notò che il “chiodo” aveva una capocchia insolita: anziché essere battuta, come di consueto, era arrotolata. Pensò quindi di tenerlo e di cercare di comprenderne la natura.

Il 10 febbraio 2017, decise di portarlo al Museo della Valle di Zogno, dove la custode, Monica Carminati, presumendo l’antichità del pezzo informò la Soprintendenza del ritrovamento. Dalle prime immagini inviate fu subito evidente che si trattava di uno spillone in bronzo del tipo con “testa a rotolo”, una foggia assai diffusa in Italia settentrionale nel corso dell’età del Bronzo (2200 – 900 a.C. circa) e della prima età del Ferro (900 – 600 a.C. circa) . Purtroppo è impossibile, avendo il solo manufatto e considerata la grande diffusione geografica e cronologica della forma, stabilire una datazione puntuale e precisi richiami di carattere culturale. Inoltre esso è stato evidentemente trasportato dalla corrente del fiume, da un sito archeologico posto a monte, e depositato sulla piccola spiaggia su cui è stato ritrovato; l’oggetto è dunque privo del contesto di origine, che ci avrebbe permesso di raccontare almeno in parte la sua storia.

Il valore di ogni reperto archeologico, infatti, non è racchiuso nel manufatto ma nel fatto che esso costituisce una testimonianza culturale della comunità che lo ha prodotto o che lo ha utilizzato. Un documento tangibile che consente di ricostruire un piccolo frammento della vita di chi ci ha preceduto sul territorio. Sappiamo che, tra la fine dell’età del Bronzo e la prima età del Ferro, un vasto e importante abitato sorgeva sul “Castello” di Piazza Brembana. Molto probabilmente dovevano esserci altri insediamenti posti sulle alture lungo la valle del Brembo, a controllo delle vie di transito verso la Valtellina e i comparti minerari dell’Alta Valle, come ne sono stati individuati più a sud, a Bondo di Ubiale-Clanezzo, a Blello e al Duno di Almenno San Salvatore.

Lo spillone potrebbe dunque essere stato perso da un abitante di questi insediamenti o deposto in una sepoltura come corredo e, dopo secoli di permanenza nel sottosuolo, è stato trasportato a valle dall’azione erosiva delle acque. Gli spilloni, soprattutto durante l’età del Bronzo, erano una parte essenziale dell’abbigliamento quotidiano. Al tempo mantelli e vesti non erano assicurati da bottoni, inventati in epoca medievale, o spille-fibule, che si diffusero durante l’età del Ferro, ma erano trattenuti appunto dagli spilloni, che venivano fatti passare attraverso i fili della trama dei tessuti in lana o fibre vegetali.

Questi oggetti avevano anche un valore ornamentale e potevano essere di materiali diversi, ne sono stati ritrovati in osso o corno animale. Lo spillone di San Pellegrino è in bronzo, una lega di rame e stagno, che veniva fuso e colato in stampi. L’oggetto era poi rifinito tramite martellatura per ottenere il rotolo della capocchia e, a volte, la curvatura del gambo. Era certamente un bene prezioso, non a tutti infatti era concesso di possedere un oggetto di ornamento in metallo, che al tempo circolava in quantità relativamente limitate: si pensi solo che mentre il rame in piccole quantità è reperibile anche nel territorio bergamasco, lo stagno veniva procurato attraverso una rete di scambi a vasto raggio con l’Europa transalpina: Cornovaglia, Bretagna, Boemia.

Per ora, in merito allo spillone, possiamo ricavare solo queste poche notizie. Un doveroso ringraziamento va alla famiglia Milesi che, dopo il ritrovamento, ha restituito il reperto alla memoria collettiva consegnandolo al Museo e facendolo così diventare una tessera di quel complesso mosaico di oggetti e dati archeologici che, lentamente, ci consentirà di ricostruire almeno in parte la storia più antica della Valle.

Articolo estratto da “Quaderni Brembani n.16” e scritto da Cristina Longhi e Francesco Milesi

 

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