Nuovo numero della rubrica dedicata alla salute a cura della Farmacia Visini di Almè. In questa nuova puntata il dott. Michele Visini racconta la sua esperienza da farmacista-missionario.
Parlare di questa parte della mia vita professionale e personale, ovvero scegliere di andare a fare il farmacista in una dimensione così diversa rispetto a quella in cui opero ogni giorno da oltre un ventennio, e in una realtà culturale e territoriale così lontana da casa, non è certo una novità. Altre volte in questo contesto ho raccontato il senso di questa scelta e l’idea che ho inseguito e inseguo, e altre volte ne scriverò. Più che del passato e di ciò che negli anni mi ha portato qui, credo sia importante raccontare a chi segue questo progetto, e magari è interessato a sostenerlo, a che punto siamo e cosa stiamo portando avanti.
Oggi quindi, scrivendo sull’aereo che mi sta portando in Nepal per la terza volta quest’anno, voglio raccontare di come si sta evolvendo e si è sviluppato il progetto, attraverso quali difficoltà stiamo cercando di portarlo avanti e su quali rotte ci è sembrato più opportuno navigare. Parlo al plurale perché non sono il solo a lavorare a questa parte dei progetti di Jay Nepal a Bodgaun e nel Sindhupalchock (il distretto rurale di cui Bodgaun fa parte insieme ad altri villaggi dove talvolta svolgiamo attività medico-sanitarie).
Faccio una brevissima premessa: molte delle idee proposte e delle attività che vogliamo condurre insieme allo staff nepalese del centro medico nascono dalla personale esperienza professionale di ogni giorno: fare il farmacista a latitudini così lontane può infatti sembrare un’esperienza totalmente differente, quasi fossero due lavori diversi, ma in realtà ci sono tantissimi punti di contatto,su tutti uno: il paziente e la sua salute, vero e proprio fulcro intorno a cui tutto ruota e tutto viene costruito. Nel corso dei diversi viaggi, da solo o insieme alle altre figure professionali che collaborano alle missioni (in particolare studenti e docenti del corso di laurea in medicina dell’Università di Tor Vergata di Roma), abbiamo via via provato a sviluppare in modo sempre più strutturato questo progetto-salute a Bodgaun, progetto nato nel 2018 con la costruzione del centro medico da parte di Jay Nepal (ONG italo-nepalese nata dopo il terremoto che ha devastato il Nepal nella primavera del 2015) in questo piccolo villaggio a poche ore di strada da Kathmandu.
Fin dalla mia prima esperienza qui, era il Novembre del 2019, con i responsabili e fondatori del progetto presenti a Bodgaun in quei pochi giorni vissuti con una decina di altri volontari in missione con la fondazione Time4Life, mi sono reso conto di quanto importante potesse essere provare a sviluppare una rete che si prendesse carico dei pazienti (in particolare dei pazienti cronici) e che li seguisse (follow-up) nel loro percorso di cura: è lo stesso progetto di cui si parla da anni in Italia con il modello della Farmacia dei Servizi e i progetti proposti nel tentativo di superare le difficoltà create dalla scarsa “compliance” dei pazienti (in parole semplici: il paziente segue poco e male e sicuramente non in modo continuativo le indicazioni terapeutiche del medico prescrittore). Ora, considerando che questo elemento risulta essere ancora oggi uno dei principali motivi di fallimento delle terapie soprattutto per pazienti cronici in un paese come l’Italia dove la cultura sanitaria è, o dovrebbe essere, molto sviluppata, provate ad immaginare cosa possa essere qui, in Nepal, dove tutto ciò che riguarda la salute è invece ancora molto, troppo poco conosciuto.
Perciò, in una realtà così lontana e per molti versi ancora piuttosto arretrata, i principali problemi contro cui ci siamo scontrati sono sostanzialmente due: mancanza di cultura sanitaria e povertà economica. Partire dall’Italia, dove, come detto, l’attenzione alla salute è altissima, dove si parla da molti anni ormai dell’importanza della prevenzione, e arrivare in un paese come il Nepal è un vero e proprio salto indietro nel tempo! Quando dico che manca la cultura sanitaria, intendo che la gente non si cura e non si pone il problema di potersi/doversi curare fino a che i sintomi e i problemi di salute non si manifestano in modo tanto forte da risultare invalidanti; noi, invece, nel nostro mondo cosiddetto evoluto, sappiamo che esiste un vastissimo sottobosco di disturbi o di alterazioni della normale fisiologia (e quindi del corretto stato di salute) che è bene affrontare precocemente per evitare che possano esitare in uno stato di malattia più grave.
I programmi di screening e le campagne di informazione incentrate sul concetto di “prevenzione” sono oggi un fulcro essenziale del sistema sanitario sviluppato nel nostro paese; va detto, peraltro, che nonostante questa attenzione e questa consapevolezza non sempre le cose funzionano… immaginiamoci come possa essere la situazione in un paese dove la cultura sanitaria è ai minimi termini. Sotto quest’ottica, è molto difficile aspettarsi che le famiglie accantonino parte dei loro già esigui guadagni (il tasso di povertà e disoccupazione, o di occupazione spesso sfruttata e sottopagata, è altissimo) in prospettiva di poterne aver bisogno per curarsi in caso di malattia; se poi estendiamo il discorso al trattamento delle patologie croniche (quali ipertensione e diabete, per esempio, ma anche malattie epatiche e renali) che solo in rari casi si manifestano con un quadro sintomatologico grave ed invalidante, questa speranza diventa pura utopia!
A questo si aggiunga che la sanità in Nepal è per lo più a carico della popolazione, tranne un ristretto elenco di farmaci ritenuti essenziali dalle autorità governative e per questo dispensati gratuitamente in alcuni Health post (una sorta di ambulatorio) dislocati qui e là nelle province. Quindi… popolazione povera, che non sa quanto importante sia prendersi cura di sé stessi PRIMA di essere ridotti in gravi condizioni, e che deve spesso affrontare spostamenti lunghi e disagevoli a piedi su sentieri polverosi per recarsi in centri ospedalieri o ambulatori medici! Sviluppare un progetto salute in queste condizioni è realmente molto complesso: la frustrazione di veder fallire diversi tentativi è, a volte, davvero molto pesante, anche perché tutto quanto si basa sulla disponibilità economica garantita dalle donazioni dei sostenitori.
Ma questa frustrazione scompare quando ci si trova a ricevere al centro medico pazienti con un quadro di salute fortemente compromesso, mossisi decisamente molto tardi (in alcuni casi, purtroppo, troppo tardi) per aver ignorato i sintomi o aver ritenuto che fosse meglio aspettare e sperare in una risoluzione spontanea evitando una spesa che potesse mettere in crisi l’economia familiare già precaria. Scrivendo queste righe, nella mente compaiono subito i flash di diversi casi, in particolare due: Sita Mahji, una donna di 46 anni, trasportata a spalle a bordo di una barella improvvisata alle prime luci del giorno nella primavera dello scorso anno, in piena ematemesi (vomitava sangue senza sosta) e con livelli di emoglobina sotto terra; era una paziente con una storia di alcolismo (vera piaga a queste latitudini) nota al centro medico che però non era più venuta ad acquistare le medicine prescritte, ricadendo nei vizi che l’avevano già in passato portata in ospedale. Lei ha smesso di curarsi, ma nessuno del personale medico se ne è accorto e nemmeno interessato! Trasportata in ospedale, è stata salvata per il rotto della cuffia solo grazie all’intervento di Jay Nepal che ha pagato spese che altrimenti non sarebbero state sostenute dalla famiglia. Ignoranza e povertà (e la mancanza di un protocollo di follow up in uso al centro medico) hanno quasi ucciso una donna che non sapeva quanto pericoloso potesse essere continuare a bere (peraltro alcool spesso di pessima qualità) con un fegato già colpito e una condizione di varici esofagee, causate da epatopatia susseguente all’abuso, pronte a sanguinare pericolosamente in modo improvviso.
Ukesh Tamang, una bimba di 5 anni, proveniente dalla lontana Gaikharka (più di un’ora su strade sterrate da Bodgaun) e trasportata in auto dai parenti, giunta al centro medico nel marzo di quest’anno con un quadro sintomatologico troppo grave e troppo avanzato (difficoltà respiratorie e sintomi di sofferenza neurologica, chi li ha visti almeno una volta nella vita non se li scorda più): una polmonite trascurata da diversi giorni se l’è portata via il giorno dopo. “Come si può morire di polmonite a 5 anni nel 2023?”. Questa la domanda che in quei giorni ci è rimbalzata nella mente. Ma chiedersi il perché o fermarsi a piangere o gridare di rabbia dinanzi a cose che non vorresti mai vedere non serve a nulla se non si cerca una soluzione che possa evitare a un altro padre e un’altra madre di piangere una bimba non destinata da malattie pregresse o da sindromi genetiche a dover morire così piccola! Anche in questo caso, l’ignoranza dei sintomi predittori, la mancanza di denaro e la carenza di infrastrutture facilmente accessibili sono state la causa principale di quanto accaduto.
Il lavoro principale DEVE essere quello di sensibilizzare la popolazione parlando di salute e di malattie, e andare in mezzo alla gente per intercettare i problemi di salute prima che diventino troppo gravi. Un passo alla volta si po’ fare tanta strada, ma si deve iniziare a camminare e si deve stabilire un obiettivo e una rotta per raggiungerlo. Partiamo da una considerazione: la gente non viene a farsi visitare! A novembre dello scorso anno e ancora a marzo di quest’anno, lavorando alla ristrutturazione della farmacia annessa al centro medico (di cui sono referente responsabile dallo scorso autunno), ho assistito a una sconfortante assenza di pazienti nel corso delle normali giornate di apertura del centro medico, cui ha fatto da contraltare un afflusso incredibilmente numeroso di gente con diversi problemi (reali) di salute durante i giorni dei campi medici (gratuiti in tutto) che in ogni missione proviamo ad organizzare quando le donazioni ce lo consentono. Il termine “gratuito” attira a qualsiasi latitudine, questo è chiaro, quindi il sospetto che fosse stata la gratuità ad attirare le 2-300 persone in singolo giorno era sicuramente forte; in realtà per il 70% abbondante (siamo ovviamente stati attenti a fare questa valutazione con i medici nepalesi che sono venuti al centro medico) i pazienti che si sono presentati avevano sintomi e disturbi reali. E allora, dove erano prima? Perché non sono venuti spontaneamente prima? Solo perché durante i campi medici sapevano che non avrebbero pagato?
Basta organizzare una sanità gratuita e il problema si risolve? La risposta è NO, o quantomeno non del tutto. Sicuramente si risolverebbe il problema della carenza economica come freno per la popolazione. Ma erogare gratuitamente, senza realizzare protocolli di informazione e di presa in carico dei paziente, una serie di prestazioni e visite, e distribuire gratuitamente farmaci ad una popolazione che non ha cultura sanitaria e che senza un motivo né un preavviso decide di smettere di curarsi, non è un modo oculato di utilizzare i fondi raccolti grazie alla generosità della gente. Senza lavorare sulla “consapevolezza” del paziente, il rischio è realmente solo quello di uno sperpero sanguinoso e inopportuno di risorse preziosissime.
Bisogna lavorare per creare una rete-salute al cui centro venga messo il paziente. La soluzione cui abbiamo pensato è stata quella di creare una collaborazione con il governo nepalese per strutturare un programma articolato che ci consenta di prenderci cura della salute della popolazione: a qualsiasi latitudine, se non si ha il controllo amministrativo e politico (che passa anche ovviamente attraverso quello della situazione economica), è molto difficile cambiare abitudini lavorative consolidate. In concreto, la prima proposta, oggi realtà, è stata quella di creare un Comitato Tecnico costituito da alcuni referenti italiani (io per la farmacia e l’Università di Tor Vergata di Roma per la parte medica), da esponenti governativi e da due medici nepalesi; compito del comitato sarà quello di stilare una serie di programmi di screening e controllo (sia preventivo che in follow-up) per intercettare o seguire i pazienti nel loro percorso di cura. Il centro medico, peraltro, necessita di interventi di ristrutturazione e manutenzione soprattutto a riguardo delle attrezzature necessarie per visitare i pazienti: l’elettrocardiografo da ricomprare, l’ecografo da controllare e verificare, l’UPS (sistema per garantire l’alimentazione del centro quando la corrente elettrica decade…..cosa frequentissima soprattutto nella stagione delle piogge) da ripristinare, l’ambulatorio odontoiatrico da rimettere in sesto, insomma diversi interventi! Ne vale la pena considerando che non abbiamo garanzia del risultato? I primi segnali di questi ultimi mesi sembrano incoraggianti, e la nostra speranza è che la missione che sta per iniziare possa dare una spinta importante al progetto, che ovviamente potrà svilupparsi e incrementarsi ulteriormente nel tempo, magari anche grazie alla collaborazione di altre figure sanitarie che nel tempo potranno appassionarsi all’idea. Credere in un sogno, grazie al sostegno e alla fiducia di tanta gente, è possibile!