Michele Visini: “Siamo pronti a tornare alla normalità? C’è ancora troppa paura”

Nuovo numero della rubrica dedicata alla salute a cura della Farmacia Visini di Almè. In questa puntata Michele Visini spiega il ritorno alla normalità post-Covid, tra paura e convivenza con il virus.
11 Maggio 2022

Nuovo numero della rubrica dedicata alla salute a cura della Farmacia Visini di Almè. In questa puntata Michele Visini spiega il ritorno alla normalità post-Covid, tra paura e convivenza con il virus.

Sono passati più di due anni da quando, verso la fine di febbraio del 2020, la nostra realtà quotidiana è d’improvviso cambiata del tutto, gettandoci in un nuovo mondo fatto di regole, di numeri, di distanze, di protezioni…fatto prima di tutto di malattia, e di ciò che ad essa da sempre si accompagna: la PAURA, ulteriormente amplificata nel caso specifico dalla mancanza di controllo che purtroppo dal principio abbiamo dovuto accettare e subire.

Come scritto in altre occasioni, non sono né un medico né un immunologo o altro….sono “semplicemente” un farmacista territoriale, e come tale ho lavorato in questo tempo di pandemia, raccogliendo, come hanno fatto moltissime persone di ogni estrazione sociale e professionale, quante più informazioni possibile da parte di tutti coloro che, a vario titolo, si sono espressi in materia sui diversi canali di informazione. In più, lavorando come farmacista sul territorio, quotidianamente a contatto con la gente, e parlando con la gente stessa nel corso dell’esercizio della mia professione (soprattutto, relativamente alla questione COVID, durante le ore e ore dedicate all’esecuzione dei tamponi), ho potuto raccogliere tantissimi spunti di riflessione, tastando letteralmente il polso dei pensieri, delle sensazioni e delle emozioni. Come sempre premetto che ciò che scrivo è frutto di quanto maturato e riflettuto personalmente e di ogni cosa mi assumo piena responsabilità.

SIAMO PRONTI?

Oggi, a maggio 2022, con i cambiamenti alle norme e nelle misure restrittive che hanno regolato e limitato gli ultimi due anni della nostra vita, cambiamenti che dovrebbero riavvicinarci sempre più al ritorno a una normalità che credo nessuno abbia dimenticato e che credo tutti auspichiamo di ritrovare quanto prima, la domanda che da più parti ci si pone è: SIAMO PRONTI?

Per provare a dare una risposta a questa essenziale domanda, dalla cui risposta tutto discenderà a cascata, credo si debba provare ad osservare la questione da diversi punti di vista, partendo dal presupposto che il primo elemento da dover superare (o con cui dover imparare a convivere) è proprio la PAURA.

SIAMO PRONTI? Io credo che tutto quanto oggi giri intorno a questa domanda, a prescindere dal livello a cui ci poniamo per cercare una risposta, sia esso quello della comunità scientifica (che ricerca spiegazioni e giustificazioni teoriche sottese alle misure da attuare), quello delle organizzazioni medico-sanitarie territoriali (deputate a prendersi carico della gestione della diffusione degli effetti clinici del virus), quello delle sfere politiche (atte a doversi far carico dell’onere – ma a parer mio anche dell’onore….o tale dovrebbe essere, quantomeno- di prendere le decisioni finali), oppure quello della gente comune, che porta con sé certamente minore competenza tecnica, sopperita tuttavia da un bagaglio esperienziale di vissuto che non è assolutamente meno importante. Io credo sinceramente che per quanta voglia ognuno di noi probabilmente davvero ha di tornare alla normalità, la risposta alla domanda ad oggi sia: NON ANCORA. Non siamo ancora pronti, anche se credo che la situazione sanitaria potrebbe consentirci di darci una diversa risposta. Credo altresì che molto della titubanza che, differentemente dal resto d’Europa, ci sta frenando, dipenda in larga misura dalla paura, dall’incertezza e dalla mancanza di controllo; tutto questo concorre a creare una sorta di “alea”, inaccettabile nella nostra iperevoluta società occidentale abituata a pensare di dover (prima ancora che poter) controllare tutto.

Paura da parte della gente di stare male e poter fare del male agli altri, paura da parte delle autorità sanitarie di non riuscire a far fronte a una nuova emergenza e al contempo di trovarsi travolte da un aggravamento di tutto il RESTO che nel frattempo, causa COVID, non riesce ad essere gestito in modo adeguato, paura da parte delle autorità governative di prendere decisioni sbagliate o avventate di cui poi pentirsi. Insomma: PAURA, ma perché? A mio parere il perché sta in due elementi:

  • Ci siamo fatti molto molto molto male, sia per le conseguenze sanitarie dirette, sia per quelle sociali ed economiche indirette.
  • La via d’uscita non è la sconfitta del COVID ma la convivenza con esso, per quanto vorremmo (è ovvio che lo avremmo voluto e sperato) un finale diverso.

Eppure intorno a noi in quasi tutta Europa (tralasciando le informazioni in merito diffuse a mezzo degli organi di stampa, cui qualcuno può credere o meno, questo può essere testimoniato da chi come me ha avuto la fortuna di poter toccare con mano la realtà – a Marzo ero in Romania, a Pasqua in Slovenia) le misure restrittive sono state allentate (o addirittura abbandonate) da tempo: perché noi non riusciamo?

Sicuramente la risposta non sta nella situazione epidemiologica che non può essere differente qui rispetto a tutti i paesi con noi confinanti o a noi limitrofi: realisticamente non possiamo credere che solo qui in Italia la diffusione, ma soprattutto l’impatto clinico-sanitario del COVID sia rimasto tale da non consentirci di allinearci a quanto stabilito e attuato pressoché ovunque. Io credo che il problema stia nel fatto che fatichiamo ad accettare un concetto che già a febbraio alcuni governi del nord Europa hanno accettato e su cui si sono basati per decidere un cambio di approccio: il virus è diffuso, è radicato, è virtualmente non arginabile né tantomeno tracciabile, ma la sua presenza non è più socialmente critica.

Trovo questo concetto assolutamente illuminante sotto diversi aspetti, e personalmente mi sento di condividerlo e sottoscriverlo, aggiungendo un ulteriore elemento, che spesso ripeto alle persone con cui mi confronto nei momenti dell’esecuzione dei tamponi: sulla porta, varcando la quale possiamo uscire dal lungo inverno della pandemia e delle sue restrizioni, possiamo idealmente trovare la scritta “convivenza inconsapevole” e, da un punto di vista medico-sanitario, ritorno a “prendersi cura” dei malati, ossia delle persone che manifestano appunto uno “stato di malattia”, che non è necessariamente conseguente a uno “stato di positività”. Convivere inconsapevolmente con un virus presente, diffuso e ormai radicato tra noi, significa accettare di smettere di fare test per ricercare una presunta sicurezza (di fatto una chimera….) per sé stessi e per gli altri! Dico questo basandomi su ciò che vivo nel mio lavoro: ogni giorno, almeno una delle persone, che ancora viene ad eseguire un tampone, alla domanda “perché lo vuole fare?” (domanda che ho sempre posto ad ognuno) risponde “per essere sicuro di non essere positivo ed infettare qualcuno”; stamattina in farmacia, una cliente dopo aver starnutito (e indossava la mascherina come da normativa vigente) si è scusata e si è subito premurata di “rassicurarmi” che si trattava di una semplice rinite allergica (“sa, dottore, se starnutisco o tossisco, la gente si ritrae spaventata”); nei giorni scorsi, una nonna ha portato in farmacia una bimba di meno di due anni a fare il tampone perché aveva febbre e un pochino di raffreddore e la pediatra non la voleva visitare senza tampone; potrei andare avanti per pagine e pagine con esempi di questo genere, ma mi chiedo: ha ancora senso questo atteggiamento?

Questa ricerca di un ipotetico tracciamento dei contagi (da mesi definito irrealizzabile in modo serio e realistico)? Questo ritrarsi dinanzi a sintomi (tosse, raffreddore, ecc….) con cui abbiamo tutti convissuto per anni e anni senza porci il minimo problema? NO, non ha più senso! Non ha senso non perché concettualmente sia tutto sbagliato, anzi, ma per il semplice fatto che realisticamente non porta a nessun risultato concreto né ci consente di tendere a uno scenario futuro differente in conseguenza di tutte queste accortezze. Mesi fa si era parlato di abbandonare lo sciorinamento quotidiano di dati e numeri sulla diffusione del contagio: purtroppo non è stato realizzato, e ad oggi continuiamo a ricevere il quotidiano aggiornamento zeppo di numeri che di per sé stessi delineano il grado di diffusività dell’infezione ma non ci danno un quadro realmente attendibile del grado di patogenicità (capacità di generare, a seguito di infezione, uno stato di malattia) attuale e quindi dell’impatto clinico-sanitario a tutto tondo (dall’asintomaticità fino all’esito fatale: sappiamo solo quante persone vengono ricoverate e quante decedono con tampone positivo); soprattutto non ci consentono di capire se e in che misura stiamo percorrendo, da un punto di vista, ripeto, strettamente patogenetico, una curva oppure se di fatto la situazione si è stabilizzata su un plateau.

Si potrebbe forse provare a classificare le persone positive al Covid secondo un criterio legato ai sintomi manifestati (mutuando l’idea del triage a colori che da molto tempo viene eseguito nei centri di pronto soccorso): questo ci consentirebbe di creare una statistica (a torte, ad istogrammi, graficamente a colpo d’occhio potremmo tastare il polso della situazione reale) aggiornabile settimanalmente, e una banca dati di elementi confrontabili tra loro ad integrazione del dato numerico dei tamponi positivi ritrovati e della incidenza percentuale per numero di test effettuati.

Forse in questo modo potremmo meglio capire che tipo di strada stiamo percorrendo come società dal punto di vista della “malattia” generata dal virus, posto che la sua eradicazione non sembra ad oggi realizzabile. Questa analisi statistica si completerebbe poi incrociando tali dati con quelli che scaturiscono da un’indagine anamnestica delle persone infettate (età, sesso, stato vaccinale, condizione di salute pregressa, ecc….). A questo punto la scelta di mantenere o abolire le misure restrittive, di continuare ad eseguire o sospendere le centinaia di migliaia di tamponi quotidiani, potrebbe poggiare su una analisi molto più completa e solida.

IL COVID IN MEZZO A NOI…..TRA IERI E OGGI

Il Covid probabilmente resterà tra noi! Proviamo a capire cosa è successo e cosa sta succedendo, anche da un punto di vista evolutivo. Nel corso di questi due anni, infatti, abbiamo assistito a un costante cambiamento del nostro rapporto con il Covid, risultato di un processo evolutivo naturale che si instaura sempre tra due entità, una delle quali è l’ospite e l’altra la specie parassita che necessita dell’ospite stesso per poter sopravvivere e svilupparsi. Sotto l’aspetto evoluzionistico, il nostro rapporto con i microrganismi patogeni è sempre stato di rincorsa reciproca, alla ricerca di una condizione di convivenza, passando via via attraverso mutazioni dei microrganismi e relativi adeguamenti dell’uomo e del suo sistema immunitario (oltre che delle conoscenze medico scientifiche e dei risultati in termini di creazione di strumenti di opposizione alle infezioni, ovvero farmaci e vaccini).

In questi due anni uno degli argomenti maggiormente dibattuti è stato quello delle cosiddette “varianti” del Covid, che altro non sono se non prevedibili e naturali mutazioni della sequenza genica del virus, frutto di altrettanto naturali errori di trascrizione (ossia del meccanismo grazie al quale gli esseri viventi si replicano e si moltiplicano) che si susseguono incessantemente con velocità diverse in ragione di diversi fattori, sia dipendenti dalla specie coinvolta (alcuni virus mutano più velocemente, altri meno, grazie a sistemi di riparazione della sequenza genica che rimediano agli errori creatisi), sia a causa di fattori esterni (le cosiddette “pressioni selettive” ambientali, a seguito delle quali si assiste appunto a una selezione a favore di alcune varianti più favorevoli per il virus stesso e a discapito di altre meno favorenti la replicazione virale e l’adattamento all’ospite). In linea di principio, l’evoluzione della specie porta quasi sempre un essere vivente a mutare per adattarsi meglio possibile all’ambiente in cui si trova.

Non è interesse di nessun virus aggredire il proprio ospite inducendo, a seguito dell’infezione, uno stato di malattia caratterizzato da un quadro sintomatologico molto severo, fino al limite a causare la morte dell’ospite stesso. Tuttavia, quando un virus si trova ad infettare una specie ospite del tutto nuova, le conseguenze iniziali in termini di patogenicità sono spesso molto violente e del tutto imprevedibili: il virus non è abituato al nuovo ospite, il quale a sua volta non ha a disposizione alcun sistema specifico di difesa contro l’infezione. Senza entrare nel merito della dibattuta questione circa l’origine del virus (salto di specie del tutto naturale e spontaneo/manipolazione genica/creazione artificiale….le ipotesi sono diverse e una reale spiegazione al momento non è ancora stata raggiunta in modo certo e inconfutabile), l’arrivo del SARS-COV2 tra noi due anni fa è stato un uragano che ci ha travolti, con un impatto sanitario devastante: le persone infettate presentavano spessissimo un quadro di malattia molto grave e il numero di morti per impatto diretto è stato davvero molto elevato.

A dire il vero, questo non si è verificato sempre, dato che gli asintomatici o i paucisintomatici, ossia persone infettate ma senza un quadro sintomatologico significativo, ci sono sempre stati, e questo è da sempre il principale motivo per cui qualsiasi tentativo di tracciamento realisticamente attendibile non è stato possibile. Per una serie di ragioni e a seguito del naturale susseguirsi di mutazioni, vera benzina del cambiamento evolutivo in ogni specie vivente, il SARS-COV2 ha progressivamente mutato le sue caratteristiche: sempre più infettivo e sempre meno virulento, coerentemente con quanto ci si attende, così come spiegato sopra. Al susseguirsi delle diverse “macrovarianti” (ovvero le varianti del Covid che più si sono diffuse a livello planetario: Alfa, Delta e Omicron, con le relative sottospecie), la “patogenicità diretta” è via via scesa sempre più, parallelamente peraltro all’aumento in ragione di proporzionalità inversa delle capacità di difesa da parte dell’uomo (tanto naturali quanto indotte dalla vaccinazione di massa). In altre parole, nel corso di questi due anni, il processo di adattamento reciproco e le “pressioni selettive” esercitate sull’evoluzione del Covid da parte dell’uomo con terapie e vaccini, hanno portato a un quadro attuale che può ragionevolmente consentirci di provare a convivere con la presenza del virus tra noi. Come detto prima, questo risultato non è quanto avremmo auspicato, dato che la cosa migliore, considerato quanto male ci ha fatto, sarebbe ovviamente stata la totale eradicazione del Covid dal pianeta terra (il sogno utopistico di “Covid-zero” che in alcune parti del mondo qualcuno sta cercando di portare avanti).

Eradicare completamente un virus implica in prima battuta la necessità di evidenziare la sua presenza e la sua diffusione (il cosiddetto “tracciamento”), e il successivo isolamento degli individui infetti evitando il contatto con altri esseri viventi e quindi la trasmissione del contagio. Nel nostro caso, è sempre stato chiaro che questo non sarebbe stato possibile, proprio a causa del numero elevato di “positivi asintomatici”, ovvero di portatori sani, ignari di esserlo ma di fatto responsabili di una diffusione a quel punto non più tracciabile. Ma perché allora siamo andati avanti due anni a cercare ostinatamente di tracciare, di isolare, di creare protocolli, di infliggere quarantene fino ad arrivare in alcuni casi a delle vere e proprie paralisi di interi cluster? Perché accettare di rinunciare a cercare significa in primo luogo perdere ogni possibile parvenza di “sicurezza”, e per quanto sia davvero inevitabile accettare di non poter essere sicuri né di non essere positivi né di non poter infettare qualcun altro, è chiaro che vista l’esperienza tragica vissuta e la paura che ci è entrata fino nel profondo, questo passo è enormemente difficile da compiere. Infatti, è soltanto superando la paura e razionalizzando l’approccio ad una realtà che è fortunatamente cambiata, che potremo riuscire a convivere con qualcosa che nel caso di altri virus accettiamo serenamente da sempre (un amico professore in una facoltà di medicina, ridendo – ma nemmeno troppo – di recente mi parlava della sua intenzione di promuovere la “pari dignità dei virus”).

…E DOMANI??

Il domani è qui, ed è all’insegna della volontà che tutti dobbiamo metterci di voler ritrovare il contatto umano senza paura, di voler tornare a guardare le cose con più ottimismo, senza ovviamente dimenticare che dovremo occuparci dei malati e delle conseguenze sanitarie delle infezioni da Covid sicuramente per molto tempo ancora e forse per sempre. Abbiamo gli strumenti per provare a fare tutto questo…dobbiamo usarli, con criteri e metodi ben precisi:

  • i vaccini, che si sono dimostrati e si dimostrano efficaci nel ridurre l’impatto clinico-sanitario delle infezioni, al di là delle polemiche stucchevoli che a parer mio hanno viaggiato sulle ali di una strumentalizzazione demagogica che ben poco ha avuto a che fare con la scienza e la medicina (non a caso non sono entrato in argomento)
  • i farmaci di supporto: gli approcci terapeutici a quadri sintomatologici più o meno severi, che ormai sappiamo essere validi ed efficaci, prevedono la somministrazione di antinfiammatori, cortisonici, antibiotici per prevenire sovra infezioni batteriche soprattutto in pazienti con interessamento polmonare, ed eparina per scongiurare eventi pro trombotici sistemici ed embolici
  • i farmaci antivirali: a giorni potrà essere prescritto anche dal medico di medicina generale sul territorio un farmaco specifico antiretrovirale (Paxlovid) destinato a pazienti con un quadro sintomatologico importante, ma soprattutto con uno stato di salute complessivo che possa far temere che l’infezione da Covid possa determinare una prognosi più severa.

In questo quadro, credo sia opportuno rivedere i criteri in base ai quali si sottopongono le persone ai tamponi, ovvero a un esame la cui finalità è di avere una diagnosi. In quali casi potrebbe avere senso avere una risposta certa, trattandosi di una epidemia? Proverei ad azzardare due ipotesi:

  • TRACCIAMENTO: circoscrivere la diffusione del contagio, isolando le persone infette
  • CURA: orientare le terapie in modo specifico

TRACCIAMENTO: come già detto, è sostanzialmente impossibile qualsiasi tentativo di tracciamento che possa dirsi realistico e soprattutto sostenibile, compatibilmente con una società che non può rimanere in lockdown a lungo; per di più, a causa di diversi fattori (tempi di incubazione, carica virale…solo per citarne due), i tamponi antigenici (lo strumento diagnostico più diffuso e versatile) si sono rivelati fallibili: senza entrare nel merito di una questione, questa dei tamponi, ampiamente dibattuta e sviscerata, è chiaro da tempo che è virtualmente non stimabile il grado di scostamento dalla realtà della curva dei contagi determinata a seguito della esecuzione per la maggior parte dei casi di tamponi rapidi antigenici (da molto tempo enormemente superiori nel numero rispetto ai tamponi molecolari). Sulla base di queste considerazioni, non ritengo personalmente più opportuno continuare ad eseguire tamponi, perché purtroppo, che ci piaccia o no, per un individuo isolato in quanto positivo ce ne saranno decine altrettanto positivi ma ignari di esserlo in quanto asintomatici, quindi non sottoposti a tampone se non in modo del tutto casuale….e va da sé che un tracciamento il cui criterio di selezione si basi in larga misura sul caso debba essere abbandonato.

CURA: non mi riferisco alle terapie di supporto, che non cambiano in ragione della diagnosi; se un paziente ha febbre o mal di gola, per esempio, i farmaci che gli verranno somministrati saranno i medesimi a prescindere dall’esito del tampone; le terapie antivirali specifiche, invece, saranno prescrivibili e somministrabili solo previa conferma della diagnosi (e quindi in questo caso il tampone dovrà essere eseguito), ma solo ad una ristretta cerchia di pazienti con un pregresso stato di salute che possa far temere un aggravamento a seguito di infezione da Covid.

Non ho citato né le mascherine né altre strategie di distanziamento sociale: un ritorno alla normalità che passi attraverso l’accettazione della convivenza con il virus (con sorveglianza attenta di eventuali cluster di sintomatologie respiratorie o cardiovascolari acute riconducibili a infezione da SARS-COV2) non può fondarsi sul mantenimento di misure che non possono restare per sempre, che un po’ ovunque sono state abbandonate e che, soprattutto, non si sono dimostrate efficaci. Dobbiamo avere fiducia nella scienza, essere vigili ed attenti e smettere di avere paura e tornare davvero una volta per tutte a stringerci le mani e guardarci sorridere, perchè è questo il senso del vivere sociale che è parte fondante della vita di noi uomini!

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