A Bergamo il più giovane paziente con mini-pacemaker senza fili, secondo caso al mondo

Grazie a un dispositivo invisibile, il 14nne potrà fare una vita normale.
29 Agosto 2019

Bastava un po’ di agitazione, un’emozione più forte del solito e il cuore di Marco (il nome è di fantasia) smetteva di battere. Un dolore improvviso al petto e il buio, uno svenimento, fin dai 7 anni. Interminabili secondi per i genitori, imprevisti e imprevedibili, capaci anche di non manifestarsi per mesi, anni e poi all’improvviso ricomparire.

Un disturbo che la scienza definisce asistolia: il cuore di colpo smette di battere. Si tratta di un particolare tipo di bradiaritmia, un’alterazione del ritmo cardiaco per cui, per un periodo più o meno lungo, manca l’impulso che dovrebbe generarsi automaticamente nel nodo del seno e far battere il cuore. Così, senza sintomi premonitori, il battito cardiaco si ferma, provocando l’improvvisa perdita di coscienza e spesso brusche cadute a terra. Questa condizione risulta pericolosa sia per i possibili traumi, sia perché il cuore potrebbe non ripartire in modo corretto, ma con quella particolare aritmia ventricolare maligna che porta alla morte.

Per tutti questi motivi, era fondamentale monitorare da vicino cosa avveniva nel cuore di Marco, in particolare durante la perdita di conoscenza. L’equipe di Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione cardiaca del Papa Giovanni XXIII segue il bambino fin dal 2013 e, vista l’età e la frequenza irregolare dei disturbi, hanno fatto ricorso a un loop recorder. Con una specie di siringa, i medici posizionano sotto la cute, vicino al cuore, una sorta di minuscolo “registratore automatico”, grande solo un terzo di una pila ministilo AAA, in grado di registrare l’elettrocardiogramma, giorno e notte continuativamente, distinguendo e memorizzando sia le pause del battito che le aritmie pericolose. I curanti possono valutare il tracciato sul computer dell’ospedale, a cui viene inviato durante la notte. Registrare le aritmie al momento giusto aiuta i medici a diagnosticare con precisione l’irregolarità del battito cardiaco e a prendere una decisione tempestiva.

Nel 2016 il cuore di Marco si ferma ancora, poco prima si era agitato per un piccolo incidente. La sincope dura 9 secondi. Già si inizia a parlare della possibilità di dover impiantare un pace maker endocavitario convenzionale, con un catetere, una sorta di filo che arriva al cuore. Un dispositivo che lo avrebbe sì protetto dalle asistolie,  togliendogli però la possibilità di vivere come tutti i suoi coetanei, di fare sport, di giocare a pallone, di sciare e molto altro ancora. I genitori e i medici discutono a lungo e si concorda di aspettare: è un rischio, ma Marco non vuole smettere di giocare a pallone, né essere diverso dagli amici.

Due anni più tardi, Marco si sveglia in piena notte per un forte dolore all’addome, sembra un normale mal di pancia, ma di colpo sviene. Quando si riprende, avvisa i genitori, ma ricorda solo di non essersi sentito bene. La ricostruzione corretta possono farla i cardiologi grazie alla registrazione: Marco ha rischiato molto, perché il cuore quella notte si è fermato per più di 18 secondi. Fortunatamente il battito è ripreso spontaneamente e in modo regolare, ma il segnale è chiaro, non si può più aspettare.

Il giorno successivo i cardiologi incontrano i genitori e spiegano la gravità della situazione. Quest’ultima trasmissione rendeva la decisione improrogabile. E se un attacco avesse colto il ragazzo mentre era in motorino o in acqua? Troppe le accortezze che Marco avrebbe dovuto adottare, le situazioni da evitare, alla soglia dell’adolescenza. Paolo De Filippo, responsabile dell’Unità di Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione cardiaca dell’ASST Papa Giovanni XXIII e la sua collega Paola Ferrari, aritmologa specializzata sulle patologie pediatriche, propongono d’intervenire.

Marco è ancora contrario al trattamento standard, non vuole fili, né impedimenti, né altre cicatrici. Viene scelto un sistema di stimolazione cardiaca miniaturizzato, il più piccolo pacemaker al mondo. Una vera e propria cardiocapsula, che misura meno di un decimo dei pacemaker tradizionali, invisibile e dal peso di 2 grammi. Misura poco più di 2 centimetri, come una moneta da un euro. La batteria garantisce per circa una decina di anni l’emissione di impulsi elettrici in grado di regolarizzare il battito cardiaco.

“Grazie al dispositivo, che non necessita di alcun filo o elettro-catetere di connessione, è stato possibile superare una serie di problemi legati al classico pacemaker monocamerale – spiega Paolo De Filippo -. Inserito chirurgicamente sotto la pelle del torace, il tradizionale pacemaker impedisce alcuni gesti del braccio. E’ più complicato praticare attività sportive come il nuoto, la pallavolo, il tennis e, più in generale, attività in cui si rischia di cadere o sport di contatto come le arti marziali o il calcio. Al contrario, questa tecnologia è del tutto invisibile e non invasiva. Non richiede incisioni né “tasche” sotto la cute del torace, eliminando il rischio di infezioni e di potenziali complicanze, tipiche di un intervento tradizionale”.

Quando si sottopone all’intervento, Marco ha solo 14 anni. Non è la prima volta che un dispositivo simile viene impiantato su un paziente al Papa Giovanni XXIII. L’Unità di Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione cardiaca, che fa parte del Dipartimento Cardiovascolare e della Unità di Cardiologia 1 diretti da Michele Senniutilizza dispositivi di tecnologia mini-invasiva come questo già da diversi anni per il trattamento di pazienti adulti o anziani affetti da anomalie elettriche cardiache oppure, come in questo caso, di pazienti pediatrici. Marco però è il paziente più giovane a cui sia stato impiantato questo dispositivo in Italia e al mondo risulta solo un altro caso prima di lui. 

“Per arrivare al cuore non apriamo il torace – commenta la dottoressa Paola Ferrari -. La sonda passa attraverso la vena femorale. In questo caso però l’incognita maggiore riguardava il diametro della vena. Trattandosi di un ragazzino, lo strumento che ci permette di arrivare al cuore poteva avere dimensioni maggiori del vaso sanguigno di Marco, perciò abbiamo dovuto agire con estrema delicatezza. Siamo risaliti dall’inguine con il dispositivo che libera il pacemaker, lo abbiamo posizionato all’interno del cuore, nel ventricolo destro, e rilasciato nel sito d’ancoraggio, dove rimane grazie a piccoli ganci”.

“La scelta del dispositivo non è stata compiuta a cuor leggero. E’ una conquista tecnologica che ha ancora un grosso limite – prosegue la dottoressa Ferrari -. Quando la pila di un pace maker classico si esaurisce, noi riapriamo la ferita e lo sostituiamo. In questo caso, almeno per il momento, l’unica soluzione è lasciarlo nel cuore e metterne un altro simile, oppure posizionare un pace maker tradizionale”. “Un limite su cui si sta già lavorando – aggiunge De Filippo – e ci auguriamo che per quando la pila sarà esaurita la tecnologia ci avrà fornito una soluzione. Allora potremo dire di aver dato a Marco tutta una vita senza limitazioni e senza più rischi”.

“In tutti i campi della medicina – conclude la dottoressa Ferrari – le nuove tecnologie stanno aiutando i medici e i pazienti, in particolare nell’aritmologia. Se poi parliamo di cuori piccoli come il pugno di un bimbo, tutto ciò che è “mini” può essere un “grandissimo” passo avanti”.

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