Testo scritto da Elisa Caglioni e Giulia Leopardi (rispettivamente a destra e a sinistra in foto) della classe 4BU dell’Istituto Turoldo di Zogno nell’ambito del progetto La Voce “Giovane” delle Valli.
Ti è mai capitato di percorrere una strada al buio? È successo a chiunque. E di accelerare il passo sentendo qualcuno avvicinarsi? Sì, qualche volta. Ma quanti, a questo punto, si sono chiesti se mettere una gonna, proprio quella sera in cui si sapeva di dover tornare a casa soli, fosse stata la scelta giusta? Forse non tanti, ma tante sì.
Il 25 novembre ha lo scopo di ricordare ogni vittima di violenza. In particolare rievoca l’assassinio delle tre sorelle Mirabal, che hanno lottato contro il regime autoritario del dominicano Rafael Trujillo. Ma questa è solo una delle tragedie più eclatanti. Quasi ogni donna ha un episodio di molestia da raccontare. Forse non nota quanto quella delle sorelle Mirabal, ma abbastanza impattante da condizionare la mentalità di chi l’ha vissuta.
E non solo: è ormai radicata nella nostra società la convinzione che una donna sia destinata a convivere con la paura. Un tipo di paura generato dalla consapevolezza di non poter contrastare un’aggressione inflitta con la forza. Un tipo di paura che l’uomo non conosce, in quanto parte del “sesso dominante”. La più grande differenza di genere è la maldistribuzione della paura: una parte è più propensa al ruolo di vittima, mentre l’altra avrà sempre il coltello dalla parte del manico.
Ed è proprio per la rassegnazione a questa triste verità che molte violenze non vengono denunciate, né quelle che ci appaiono insignificanti né quelle assolutamente imperdonabili. Dal nostro punto di vista sembra impossibile non reagire davanti ad un occhio nero; ma allora perché lasciamo passare un fischio o una mano sul seno? Perché non denunciamo?
Il problema non è solo che noi stesse diamo poca importanza a questi episodi. Il problema è che, in caso denunciassimo, un fischio o una mano sul seno non verrebbero considerati come dei crimini significativi. Molte segnalazioni non vengono neanche prese in considerazione dalle autorità perché ritenute poco rilevanti, o addirittura vengono sminuite. È celebre il caso della ragazza diciottenne che nel 1998 denunciò il suo stupratore, che però venne assolto con la scusante dei jeans “troppo stretti per essere tolti senza il suo consenso”. Questo fenomeno si chiama victim blaming ed è proprio ciò che porta molte donne a non denunciare la violenza subita e a incolpare sé stesse.
I dati Istat testimoniano che solo il 12% delle vittime segnala gli abusi inflitti dal partner, e addirittura solo il 6%, se lo stupratore è una persona diversa dal partner. Una vittima è quindi scoraggiata, oltre che dalle complesse pratiche burocratiche, anche dal giudizio che potrebbe subire.
Per porre fine a questa spirale di paura e vergogna, dobbiamo agire sulla mentalità comune. Generalmente siamo convinti che la violenza sia un fenomeno privato, un piccolo mondo di cui fanno parte solo la violentata e il violentatore. Ma non è così: spesso gli abusi accadono davanti agli occhi di tutti, ma nessuno si sente abbastanza coinvolto per intervenire. Manca la consapevolezza che per evitare una tragedia basterebbe poco. Solitamente chi molesta non lo fa apertamente, per evitare problemi legali: un richiamo, un segnale, possono far desistere un criminale dal suo intento. Dobbiamo aprire gli occhi, ma non solo il 25 novembre: la violenza comincia da un fischio, da ciò che è visto, ma ignorato da tutti, da ciò che non puoi mai prevedere. Puoi solo averne paura.