La scuola dagli anni '60 ai '90, Dorina Carrara si racconta: "La maestra deve essere una guida"

I suoi occhi hanno visto per quarant’anni generazioni di bambini della Valle Brembana crescere tra i banchi di scuola. Lo stesso sguardo attento non è mai mancato per i suoi sei fratelli, per suo marito e i loro tre figli. “Ringrazio il Cielo di avere ancora la vista, che è la cosa più importante” esordisce Dorina Carrara, 82 anni compiuti il 13 agosto, mentre legge un quotidiano in attesa dell’intervista.
24 Gennaio 2022

Articolo estratto da "Quaderni Brembani n.20" e scritto da Eleonora Arizzi.

I suoi occhi hanno visto per quarant’anni generazioni di bambini della Valle Brembana crescere tra i banchi di scuola. Lo stesso sguardo attento non è mai mancato per i suoi sei fratelli, per suo marito e i loro tre figli. “Ringrazio il Cielo di avere ancora la vista, che è la cosa più importante” esordisce Dorina Carrara, 82 anni compiuti il 13 agosto, mentre legge un quotidiano in attesa dell’intervista. E da come si presenta sembra che il buon Dio per lei abbia conservato non solo la vista: a sentirla parlare, con dolcezza e lucidità, mi sembra di essere tornata agli anni Novanta, quando ero una sua alunna e lei mi insegnava le tabelline e la geometria.

Sei nata a Valpiana di Serina nel 1939...
Ero la prima di sette fratelli, cinque femmine e due maschi (attualmente solo tre femmine viventi, ndr), quindi ero considerata quella grande anche quando ero solo una bambina. La mia famiglia aveva le mucche quindi tutti dovevano aiutare: io, essendo la maggiore, mi occupavo della casa e dei miei fratelli. Mio papà era un uomo “moderno”, nato nel 1899, ma sarebbe considerato come un papà di oggi perché ci ascoltava e ci proteggeva quindi, sapendo che mi piaceva studiare e che avrei voluto fare la maestra, ha assecondato il mio sogno e ho potuto andare a scuola.

Quindi sei andata alle magistrali a Bergamo?
Sì, ma tardi perché ho potuto frequentare le scuole medie solo quando sono arrivate le Suore Marcelline a Valpiana, quindi a 14 anni ho iniziato la prima media e a 17 anni sono andata alle magistrali in città alta. Era una scuola gestita da altre suore, le Figlie della Sapienza, e il diploma era dopo 4 anni. Durante le magistrali andavo a casa una volta al mese e vivevo in un pensionato di suore ma ci stavo benissimo. Ho un bellissimo ricordo di entrambe le congregazioni di suore, perché erano buone e intelligenti. Pretendevano molto da noi studenti, però preparavano bene. Ci dicevano sempre “Prima dovete educare i ragazzi, non solo insegnare”. È una frase che mi ha sempre accompagnato...

Qual è stata la tua prima scuola da maestra?
L’8 ottobre del 1960 ho preso servizio a Zambla Alta di Oltre il Colle, alla Colonia del Comune di Milano. Fino a dicembre ero stata assunta come assistente, poi ho insegnato in prima e seconda elementare. Ogni due mesi c’era il cambio di alunni che salivano lì da Milano. Anche le assistenti erano insegnanti diplomate, ma non insegnavano. Erano tutte di Milano ed io ero l’unica del posto. Eravamo trattate benissimo rispetto alle altre maestre: prendevamo lo stesso stipendio, 48 mila lire al mese, e avevamo vitto e alloggio compreso. Veniva l’ispettore a controllare ad ogni cambio di turno degli alunni. La scuola alla Colonia era fino a Pasqua, poi arrivavano i prescolari e ne avevamo 20-25 a testa. Se erano belli! Lì ho avuto il primo scolaro di colore e, quando facevamo le passeggiate in paese, quelli dell’albergo distribuivano le caramelle e lui, essendo una novità a Zambla alta, era sempre il primo a riceverle. Alcuni erano un po’ discoli e ricordo che avevano sempre fame, quindi durante le passeggiate per Zambla a volte gli compravo i panini per tenerli un po’ tranquilli.

Poi dove hai insegnato?
Per dieci anni ho girato un po’ dappertutto in Val Serina come supplente: Dossena, Zambla Bassa, Cornalba, Passoni, Serina e Corone. Ho fatto tre concorsi prima di diventare di ruolo.

Che ricordo hai di quegli anni?
Ho un ricordo bello di Dossena: andavo a piedi, per il sentiero nel bosco. C’erano quasi 100 bambini ed erano suddivisi a turno perché le aule erano solo tre. La mattina non mi pesava partire da Valpiana perché andavo verso la luce dell’alba ma, quando facevo il turno pomeridiano, il rientro alla sera non era semplice. Quando nevicava mettevo gli stivali e a scuola li toglievo per far uscire la neve che si era infilata e mi sembra ancora di sentire le risate che si facevano i bambini...Sostituivo un’insegnante della Sicilia che era in maternità quindi i primi mesi andavo tutti i giorni avanti e indietro da Valpiana, poi, quando mi hanno assicurato un contratto più lungo, ho preso in affitto un appartamento in paese. Lì avevo 29 alunni di quarta elementare e io ero la loro unica maestra. Quando mi vedono, anche adesso, mi salutano! Purtroppo di due sono andata al loro funerale: sono venuti a mancare da adulti, ma non è giusto... Tutti gli anni veniva in visita il direttore che ci valutava ed è una figura che sarebbe da ripristinare perché chi fa il proprio dovere non deve avere paura di essere valutato.

Poi è arrivato il tanto agognato ruolo...
Avevo deciso che finché non avevo il ruolo non mi sarei sposata e così è andata. Nel 1970 la prima scuola di ruolo è stata Ambria di Zogno. Il periodo di prova era di due anni e al termine c’era la visita dell’ispettore: lui mi aveva detto che voleva vedere i quaderni, perché prima di me aveva avuto una sorpresa da una collega che aveva spiegato come prima forma geometrica un trapezio... invece con me e il rettangolo era andata bene! Mi sono quindi sposata (con Paolino Calvi di Lenna, ndr) nel 1974 e nell’autunno successivo ho avuto l’assegnazione definitiva a Serina e ho insegnato là fino a Natale perché poi il 1° Marzo del 1975 è nato mio figlio Roberto.

Alle elementari di Lenna quando sei arrivata?
A settembre del 1975 sono rientrata in servizio dopo la maternità a Lenna, dove nel frattempo mi ero trasferita con la famiglia. L’anno successivo mi avevano nominato a Valnegra, ma era nata la mia seconda figlia Raffaella. Poi, nel 1977, a Lenna ho sostituito la maestra Gorizia Bonetti, che era diventata vicedirettrice al Circolo Didattico di Piazza Brembana, e lì ho insegnato fino alla pensione, nel 1999. In quegli anni, nel 1983, è nata la mia terza figlia Silvia.

Quella dell’insegnante più che una professione è una missione. Sei d’accordo?
Sì, se tornassi indietro rifarei la maestra! Sono tranquilla, non ho mai litigato con nessuno e il mio lavoro l’ho fatto volentieri. Lavorare con i bambini e la loro spensieratezza mi è stato molto d’aiuto anche nei momenti di difficoltà personali, perché con loro non manca mai il sorriso e in quelle ore di lezione le preoccupazioni scompaiono. Il nostro primo compito era di essere di supporto alla famiglia nell’educazione dei bambini. Alcuni genitori non si vedevano mai ma, se interpellati, ti aiutavano: non facevano i compiti insieme come fanno adesso, ma sgridavano o sostenevano questi figli e i risultati poi c’erano. Della scuola ho solo bei ricordi. Ho lavorato per tanti anni con la Polattini (maestra Clotilde Intra morta nel 2014, ndr) e mi manca. Con lei facevamo tanti progetti, come quello del teatro a scuola: pensavamo a tutto noi, dal copione alla scenografia. Quelli brutti sono legati alla morte dei miei alunni, venuti a mancate da giovani o adulti: purtroppo ho partecipato a sei funerali, ma sono gli alunni che devono accompagnate al camposanto la maestra e non viceversa!

Hai dei consigli per le famiglie?
Vorrei che le famiglie partecipassero in modo diverso: devono collaborare con la scuola, non solo difendere i propri figli. Devono ricordarsi che le maestre vogliono il bene degli alunni. Io ho avuto anche un’alunna sordomuta e non c’era l’insegnante di sostegno e nessun aiuto: aveva dei genitori molto carini che avevano fiducia in me e lei ha fatto tranquillamente il suo percorso di studi.

E agli insegnanti cosa auguri?
Auguro di avere pazienza, comprensione e non giudicare. Però non farsi prendere per il naso! Bisogna essere una guida, non mettersi al livello degli alunni

Articolo estratto da "Quaderni Brembani n.20" e scritto da Eleonora Arizzi.

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